News/Approfondimenti > 13 marzo 2005

Giovedì al MART la lectio magistralis del filosofo Aldo Giorgio Gargani, invitato da tsm

di Lorenzo Tomasin

''Hobbes, ottimo maestro anche per i manager di oggi''. Gargani: ci insegna che il vero e il falso dipendono dal linguaggio.

Aldo Giorgio Gargani
è un filosofo: formatosi alla Scuola Normale negli anni Cinquanta, insegna oggi all'Università di Pisa ed ha all'attivo un cospicuo numero di saggi su temi che spaziano da Hobbes a Wittgenstein.

Ma da alcuni anni è anche uno degli specialisti più richiesti nell'ambito di attività di formazione per imprese (ha lavorato, tra l'altro, per la Rai e per l'Istud, per l'Enel e per Omnitel). Una figura, insomma, non confinata all'ambiente accademico né a quello filosofico in senso tradizionale, che non stupisce dunque di trovare tra i relatori del Master of Art and Culture Management della Trento School of Management.

La sua lectio (''Inventare o scoprire? Il sapere come dialogo sperimentale e come ascolto performativodella natura e degli interlocutori umani'') è prevista per giovedì prossimo negli spazi del Museo d'arte moderna e contemporanea di Rovereto.

Ma che cosa avrà da dire un filosofo ad una platea formata in prevalenza da futuri manager?

È sempre più frequente che nei corsi di management, ma anche in quelli di gestione aziendale di altre simili attività tradizionalmente associate alle competenze di economisti siano chiamati ad insegnare i filosofi o addirittura i letterati. Come si può interpretare questo fenomeno?

''Qualche rapporto tra le imprese ed esponenti della cultura umanistica si hanno in realtà in Italia già negli anni '50, in particolare con Olivetti, che chiamò presso di sé scrittori come Volponi o designer come Sottsass. Ma il fenomeno è indubbiamente cresciuto in età più recente, ed è segno in primo luogo del cambiamento nel modo di concepire l'organizzazione dell'impresa a partire da autori come Simon, Cyert e March, che hanno insegnato a vedere l'impresa non più come struttura spiegabile in ter
mini di teoria economica, ma fondamentalmente come insieme di comportamenti umani. Vi è poi un cambiamento stesso della filosofia, che tende a non essere più vista come scienza prima, fondamento di ogni disciplina: in un certo senso, il ridimensionamento del ruolo della filosofia ha portato a una sua maggiore diffusività''.

In generale, l'organizzazione e l'insegnamento delle discipline umanistiche nelle università e negl'istituti di studi avanzati, si sta spostando sempre più il centro gravitazionale dell'area umanistica è sempre meno rivolto ai saperi tradizionali e sempre più verso le tecniche di comunicazione, la gestione dell'informazione. Segno dei tempi che cambiano?

''E indubbio che vi sia una simile trasformazione in corso, di
cui i vari tentativi di riforma non sempre felici - sono uno dei segni. Beninteso: nelle università continuiamo a trattare di Aristotele, ma è subentrata una svolta, quella che Richard Rorthy ha chiamato svolta linguistica: la consapevolezza del ruolo del linguaggio e del fatto che il linguaggio, e quindi la comunicazione, sono cruciali per capire il modo in cui l'uomo descrive la realtà. Per usare una felice battuta di Putnam, siamo noi che ritagliamo il mobilio dell'universo. Con il linguaggio, appunto''.

Lei stesso, tuttavia, ha alle spalle una formazione, e anche una concreta attività di ricerca, rivolte soprattutto alla storia della filosofia e ai problemi classici dell'epistemologia moderna. Che cos'ha da dire Hobbes ai moderni manager della cultura?

''Hobbes ci insegna ad esempio che il vero e il falso dipendono appunto dal linguaggio, che non ha senso parlare di vero e di falso al di fuori del linguaggio: ci trasmette dei presagi della sensibilità moderna che fanno di questo contemporaneo di Galileo un uomo moderno, del tutto simile a noi perché concentrato su temi con cui l'uomo medievale non doveva fare i conti, mentre quello contemporaneo deve continuamente rnisurarcisi''.

Più in generale, come dovrebbe avvenire, secondo lei, la transizione dal «vecchio» al «nuovo» modo di affrontare lo studio delle scienze umane? Che cosa, in altre parole, va salvato o aggiornato nel modo tradizionale di studiare la filosofia in vista delle nuove esigenze di chi vi si dedica oggi?

''Quasi sempre, nella storia umana, la vera novità non scaturisce da una rottura brusca con il vecchio, ma in un rinnovamento nella tradizione. La migliore transizione dal nuovo al vecchio consiste in genere in un modo nuovo di leggere il vecchio. Siamo nell'anno centenario delle grandi scoperte di Einstein: ebbene, Einstein sostenne che non vi è nulla di migliore di una teoria nuova che ingloba la precedente come un caso particolare. Dunque non la distrugge, ma la supera: perciò è stato detto che Einstein ha saputo innovare la fisica perché aveva capito meglio di chiunque altro il passato, la tradizione. Lo stesso accade nelle arti (pensi a Schonberg e alla sua teoria musicale), e lo stesso dovrebbe avvenire nelle scienze umane''.

Lei ha compiuto l'ultima parte dei suoi studi al Queen's College di Oxford ed ha poi a lungo frequentato gli ambienti culturali austriaci e tedesco, di cui è in termini filosofici uno dei più profondi conoscitori. Rispetto ai fenomeni di cui abbiamo parlato l'Europa presenta una complessiva omogeneità interna o vi sono forti squilibri tra aree ancorate alla tradizione e aree proiettate verso nuovi modelli culturali?

''Ancora oggi vi sono profonde differenze nella cultura europea l'indubbio processo di omogeneizzazione. Resta vera, in altre parole, la constatazione di Bertrand Russel: è triste ammettere che anche la filosofia risente della nazionalità. Vi è un profondo gap di mentalità in particolare tra l'Europa e gli Stati Uniti, ma non mancano autori che si sono sforzati e si sforzano di colmarlo. La cultura italiana soffre un po' del prevalere degli scienziati-tecnici, o meglio della rarità di scienziati interessati alle motivazioni filosofiche. Si tratta senza dubbio di un retaggio di vecchie abitudini culturali che dovremmo cercare di superare''.

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