News/Approfondimenti > 17 novembre 2005

Business School in ordine sparso

di Roberta Paolini

Intelligenze parcellizzate e incapaci di creare una spirale evolutiva di iniziative coerenti? O un individualismo sfrenato, ipnotizzato dall’elettricità dell’utile e incapace di vedere l’alternativa di un orizzonte comune? Istanze stringenti che condividono in una triangolazione di intenti le tre business school nordestine. Da Vicenza a Trieste, passando per Trento. Tre realtà Cuoa, Mib, Tsm, tre uomini Elio Marioni, Maurizio Rossini, Vladimir Nanut. Esponenti di un’economia della conoscenza che vuole superare l’angusto regionalismo e il vincolo molecolare universitario e trasformarsi in tessuto della conoscenza.

Una sfida che Rossini, direttore della Trento School of Management  ha lanciato idealmente tre anni fa. Ci sono voluti poco meno di 1000 giorni a Tsm per allungare la rete delle alleanze, allargando il retroterra, da Barcellona (Museo) a Parigi (Centre Pompidou). Neppure un lustro per dare pregnanza ai suoi corsi di management della cultura. Corsi coerenti col territorio, coerenti con gli investimenti, che in Trentino sono stati dirottati sul Mart. Scelta imposta dal confronto con un esercito di proposte schierate dalle università. Una coorte di mille e cinquecento master di matrice accademica, che urta con i corsi specializzanti e qualificanti proposti dalla scuola.

Le businnes school sono vincolate per Rossini ad “ampliare la propria vocazione come iter di specializzazione.” L’ archetipo che ha in mente Rossini “è riuscire a costruire una palestra che metta in gioco le risorse, legandole alla realtà dell’impresa. Non un’ offerta formativa generica e divelta dalla realtà in cui dovrà costruirsi un futuro.

Ma in raccordo con i “settori specifici del territorio perché qui crediamo di avere qualcosa da dire e da fare”. Il segreto del successo di Tsm: è l’apertura verso l’esterno, preludio vitale per attrarre talenti italiani e ponte verso est. Come il progetto Pontest, che si protende lungo accordi internazionali, per captare i nobili cervelli dell’Europa orientale. Ma questo non basta, perché parafrasando Nanut direttore del Mib di Trieste, espressione di una joint venture tra università e mondo delle imprese, la frammentazione orba il territorio del mondo universitario interfacoltà.

“Corsi sparsi che sono schegge – recita Nanut - che non creano, non formano campus universitario, un elemento di fertilizzazione che generava humus culturale”. La formazione si polverizza così in una congerie di proposte che ostano alla creazione di un progetto comune e strutturato. Un’ architettura economica senza pensiero non può sorreggere l’impianto imprenditoriale come dovrebbe.

Un arcipelago di scuole, o presunte tali, alimentato dal paradosso dei finanziamenti alla cultura d’impresa, all’ innovazione di risorse. Per dirla con le parole di Nanut “operiamo in un mercato debole”. “Fino a dieci anni fa – riflette il direttore del Mib - nessuna università usava fondi strutturali europei per la formazione. Negli ultimi cinque anni non c’è stata istituzione universitaria, ente, associazione di categorie, istituto di formazione, camera di commercio che non abbia attinto ai fondi sociali europei”. Considerazione quella del triestino non priva di conseguenze: la dispersione finanziaria mina all’offerta formativa globale del territorio, soffoca le strutture preposte a questo compito.

Questo è “un male endemico” stigmatizza Nanut “ una caratteristica tipicamente italiana comune a tutti i settori: nanismo e frammentazione”. Postilla con amerezza “il proliferare di iniziative, i tre pensionati che si mettono a fare un centro di formazione per manager. Tutti esperti in gestione d’impresa senza avere una faculty. Ma la formazione non è una stazione ferroviaria dove la gente parte e va semplicemente, opif icio in materia del sottoscala. Non è tuttologia, è una cosa seria.” Suggerisce Nanut, “le corazzate universitarie facciano bene la formazione di base mentre noi, che ci viviamo con le imprese, possiamo fare conoscenza specifica”.

E’ la disintegrazione del nordest, anche nella formazione, l’a ggravante che costringe ai margini le business school. Unica eccezione la Bocconi. La scuola che sforna mba da sempre, figura al terzo posto della classifica stilata sul Financial Times sulle migliori d’Europa, in qualità di membro del Cems ( Community of European Management schools) e al terzo posto della classifica di Forbes.

Le prerogative per imporsi sono sempre le stesse. Ribadite ancora fino alla retorica. Ma ancora lettera muta. Sviluppare l’ internazionalità non è un miraggio, ma la strada per creare partnership stabili oltre i confini non è banale ne breve. “Per far questo esige massa critica, dimensione” chiosa Nanut. Perché tanti piccoli universi mentali non creano una società della mente se comunicano solo con i confini angusti del proprio bacino. La questione dei confini è un Giano bifronte invece per Marioni , presidente del Cuoa di Vicenza. La businnes school del nordest con la tradizione più lunga. Dagli albori con progettualità di network. Una scuola di management sostenuta da imprese ed associazioni di categoria, istituti di credito, enti pubblici, dalle Università di Padova, Trento, Trieste, Udine, Venezia, Verona, e dall'Università IUAV di Venezia, e che oggi vive un momento di trasformazione perché l’area di riferimento non risponde come dovrebbe. “Dobbiamo mettere in chiaro le nostre potenzialità reali sul territorio” dice Marioni “perché nella situazione di oggi dobbiamo pensare più a salvare il salvabile che non a fare voli pindarici che ci proiettano in un mondo più evanescente”.

La considerazione del presidente di Askoll nasce dalla certezza che “di coca cola non ne abbiamo nel nordestr”. Fuori di metafora per Marioni “bisogna tagliare la struttura di base della nostra attività su questa realtà. Supportarla in questa fase di transizione complessa e difficile. Stimolarla a confrontarsi con il sistema di conoscenza”. Esplorare l’area renderla partecipe dell’attività di formazione e “disponibile ad investire perché ne va della sua sopravvivenza”. E mentre Marioni lancia una sfida: “Se ogni associazione industriale del nordest mi dicesse di voler investire per i prossimi cinque anni 500 mila euro perché il Cuoa diventi paragonabile alla Bocconi di Milano metto subito una firma. Ce la posso fare.”

Rossini e Nanut sottoscrivono un’ alleanza, almeno sul piano progettuale, che creai una rete tra le tre scuole. L’ esortazione di Rossini è “attivare un processo di dialogo di confronto con le altre scuole del nordest”. L’obbiettivo “capire se possano nascere interessi comuni o possibili attività da realizzare insieme”. La speranza “uno spazio per riconoscersi e concentrare gli sforzi e riconoscere ciascuno per la propria competenza”. La certezza “far crescere la capacità competitiva del sistema”.

Il Mib accoglie idealmente la proposta di Rossini e amplia il piano di intervento. “Una strada obbligata – commenta Nanut – quella di mettere attorno ad un tavolo le business schooll, le amministrazioni provinciali e regionali, le associazioni che si interroghino su come innescare un processo di evoluzione. Certo fatto questo bisogna capire con quali modalità concrete possiamo provocare un’inseminazione di cultura. Perché le singole scuole non hanno le risorse per farlo.”

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