News/Approfondimenti > 25 marzo 2014

Nel distretto del porfido il 6% degli operai sono cinesi "Sognano di avere un'impresa"

Corriere del Trentino

Immigrazione Gli studi di Bressan e Perrotta

TRENTO -- Senza gli immigrati, il distretto del porfido trentino forse non esisterebbe più. Nelle 150 cave presenti nei dintorni di Trento lavorano 479 aziende, per un totale di circa 5.000 dipendenti. Gli stranieri non rappresentano la maggioranza del totale, i dati parlano di una percentuale intorno al 20%, ma nell'ambito della seconda trasformazione «la manodopera straniera ha sostituito quella italiana che ha ridotto progressivamente la sua presenza». Ad affermarlo è Nicoletta Bressan, ricercatrice all'università di Trento grazie anche alla sua tesi di dottorato intitolata «La presenza economica cinese in Lombardia e Trentino, n settore della ristorazione e il distretto del porfido», presentata ieri nel dettaglio all'incontro su «Edilizia e immigrazione» organizzato da Trentino School of management, dal centro informativo per l'immigrazione (Cinformi) della Provincia e dal laboratorio di relazioni sindacali (Lares) e introdotto dalla relazione di Serena Piovesan(Cinformi) sul fenomeno migratorio in Trentino. La maggior parte degli extracomunitari attivi nel distretto del porfido, la maggior è composta da marocchini e macedoni ma esiste un piccolo gruppo di cinesi, il 6,4% secondo gli ultimi dati: «Sono persone che sanno fare questo lavoro--spiega Bressan--perché lo facevano nel loro Paese 0 hanno già avuto esperienze in altre aziende italiane del settore». Ma non potrebbe essere visto che «per trovare un impiego devono aprire una "guanxi", vale a dire una relazione personale, con altri individui» i quali, però, sono disposti a metterci la faccia solamente se «sanno di potersi fidare». La tesi di Bressan si è basata su 26 interviste a lavoratori dipendenti e autonomi cinesi: «n loro sogno è quello di diventare famosi come imprenditori--spiega Bressan --ma sono in pochissimi a riuscirci». A indagare il tema del lavoro in relazione aU'immigrazione è stato anche Domenico Perrotta, docente dell'università di Bergamo, che ieri ha raccontanto l'esperienza che l'ha portato a scrivere «Vite in cantiere. Migrazioni e lavoro dei rumeni in Italia», un libro che è il frutto di un'«osservazione partecipante coperta»: nel 2005 Perrotta, fingendo di voler arrotondare lo stipendio da ricercatore universitario, lavora per tre mesi in un cantiere edile di Bologna. Lì entra a contatto con gli operai e in particolare con quelli romeni, sulla condizione dei quali stava conducendo uno studio: «È stata una bella esperienza di vita in cui ho capito che le dinamiche sono molto diverse da quelle che mi venivano raccontate durante le interviste -racconta --: i rapporti conflittuali tra gli operai, la paura di essere cacciati perché all'epoca la Romania non faceva parte della Comunità europea e la maggior parte dei lavoratori presenti non aveva il permesso di soggiorno, la mancanza di possibilità da parte dei sindacati di fare qualcosa per chi non aveva diritti».

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