La qualità della comunicazione scritta nella Provincia autonoma di Trento
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La qualità della comunicazione scritta nella Provincia autonoma di Trento

Karin Gatti Susanna Meržek

Quarta di copertina

Per chi sono scritti gli avvisi pubblici, le delibere, le determine? Per tutti. Certo non per singole fasce di cittadini, con l'esclusione di altri. Tuttavia, l'impressione che si ricava dalle loro letture è diversa: che siano destinate allo stretto circuito che passa dagli “interni” agli addetti ai lavori e viceversa. Quindi operare sulla comunicazione istituzionale degli enti pubblici, in particolare quella scritta, con l'intento sia di semplificare i linguaggi sia di mirarli sul target prescelto, è un impegno imprescindibile e un fattore essenziale per favorire la trasparenza e la fattiva collaborazione tra istituzione e cittadino.

L'analisi realizzata da tsm-Trentino School of Management sulla comunicazione scritta della Provincia autonoma di Trento non ha la pretesa di fornire soluzioni operative, quanto quella di mettere in luce i connotati di un fenomeno per poterlo affrontare meglio.

Premessa, di Mauro Marcantoni

1. Obiettivi della ricerca e sintesi dei risultati

2. Analisi strutturale e indice Gulpease
2.1. Applicazione dell'indice Gulpease ai documenti della Provincia autonoma di Trento   

3. Analisi lessicale e questionario “Il valore delle parole”  
3.1. Somministrazione dei questionario “Il valore delle parole

4. Risultati di dettaglio dell'analisi strutturale
4.1. Lettere e circolari        
4.2. Delibere e determine

5. Risultati di dettaglio dell'analisi lessicale                      
5.1. Incidenza delle variabili anagrafiche

Considerazioni finali

 

Allegati

Risultati dell'analisi strutturale        
Risultati del questionario “Il valore delle parole”
Questionario “Il valore delle parole” per i cittadini          
Questionario “Il valore delle parole” per i dipendenti PAT
Definizione dei termini del questionario

di Mauro Marcantoni

Fino a qualche tempo fa, in un supermercato di Trento, era affisso un cartello scritto a penna che diceva esattamente così: “In questo locale è vietato asportare furtivamente la merce - La Direzione”. Ora, si potrebbe obiettare che c'entri poco con l'argomento di questa pubblicazione. Là era un piccolo supermercato, qui un importante ente pubblico. Quella comunicazione si rivolgeva a un pubblico ristretto e non aveva alcuna altra pretesa se non quella di mettere in allerta i possibili malintenzionati.

La comunicazione scritta prodotta dalla Provincia autonoma di Trento ha un livello di obiettivi certamente più alto e un target assai più numeroso. Tuttavia, quel simpatico cartello può essere preso come esempio per spiegare le ragioni di questa ricerca attorno alla qualità della comunicazione pubblica.
L'analisi realizzata da tsm-Trentino School of Management sulla comunicazione scritta della Provincia autonoma di Trento non ha la pretesa di fornire soluzioni operative, quanto quella di mettere in luce i connotati di un fenomeno per poterlo affrontare meglio.
Assumendo il messaggio di quel supermercato come utile paradigma, vi ritroviamo almeno tre aspetti che hanno accompagnato anche la nostra analisi. Anzitutto, è un messaggio inutilmente involuto. Perché infatti dire “asportare furtivamente” quando si poteva risolverla più efficacemente con “rubare”? Questo è anche tipico di una certa produzione scritta dell'ente pubblico: si preferisce spesso il giro lungo invece della via più diretta; si ricorre più facilmente alle parafrasi al posto di singoli sostantivi. Un vezzo, un'abitudine determinata spesso dall'erronea convinzione che un atto pubblico - una delibera di Giunta, una determinazione del dirigente, una circolare - non possano dire “pane al pane e vino al vino”. Che vi sia, in sostanza, una lingua - il “burocratese” - che appartenga a una sorta di “club” (gli esperti, gli addetti ai lavori, i tecnici) e un'altra - l'italiano di tutti i giorni - che non si presta a esprimere con esattezza un concetto tecnico. Ecco, la ricerca di “esattezza” spesso porta lontano, quando non a veri e propri esiti indesiderati.

In secondo luogo, quel cartello rivela un'assoluta banalità: che sia vietato rubare è logico, non lo stabilisce certo la direzione di un locale, ma la legge e la morale corrente. Non c'era neppure bisogno di scriverlo.
Difficile che un potenziale ladro fosse realmente convinto di poter entrare e fare man bassa di tutto, indisturbato. Questo aspetto potrebbe essere chiamato “ridondanza” ed è un'altra discutibile abitudine dell'ente pubblico. Quante parti di un testo potrebbero essere benissimo stralciate senza che l'intera struttura ne risenta. Anzi, ottenendo un benefico risultato di chiarezza e di comprensibilità. Perché la ridondanza è come una nebbia: impedisce di vedere oltre, di cogliere con uno sguardo d'insieme i tratti del paesaggio. Una delibera piena di passaggi ridondanti, cioè inutili, è una forca caudina per il cittadino costretto a addentrarsi, spesso disorientato, in un fitto reticolo di parole. Ridondanti sono anche i lunghissimi riepiloghi con cui un atto pubblico prima ricostruisce l'intera sommatoria di atti, documenti e iniziative che hanno accompagnato l'intero iter amministrativo. Solo al termine di descrizioni, spesso lunghe e costellate di richiami, si arriva al dunque. C'è quindi da chiedersi se questi rituali non meritino un deciso e coraggioso snellimento. Il terzo aspetto richiamato dal nostro “cartello” riguarda il rischio di trasmettere il messaggio alla persona sbagliata. Se il ladro, come è probabile, è portato a ignorare i contenuti del cartello, almeno così come sono formulati, i veri destinatari finiscono con l'essere i clienti: cioè persone oneste che con il messaggio in questione non hanno nulla a che fare. È quindi probabile che per coinvolgere realmente gli interessati, i contenuti del messaggio dovrebbero essere diversi. E nel caso, del tutto probabile, che non si dovessero trovare linguaggi adatti per convincere i potenziali ladri, il messaggio risulterebbe del tutto inutile.

Nella pubblica amministrazione talvolta può accadere la stessa cosa: non si tiene conto di chi è il vero destinatario del messaggio e di quale sia il linguaggio da adottare per essere compresi. Se comunichiamo nello stesso modo a chi opera all'interno dell'amministrazione, agli addetti ai lavori e ai cittadini finiamo con l'essere capiti da chi già sa. È infatti sensato ritenere che chi opera nelle istituzioni qualche tipo di informazione sull'oggetto della comunicazione già lo abbia. Oppure, se così non fosse, che sappia trovare la via giusta per informarsi. Un discorso analogo può valere per gli addetti ai lavori. Facendo della mediazione un vero e proprio mestiere, l'ampio panorama di consulenti e professionisti che presidiano i rapporti tra istituzioni e società reale qualche dimestichezza con il linguaggio e le fonti informative la devono pur avere. A rischiare di più è quindi il cittadino normale che può trovarsi di fronte a messaggi costruiti con altri linguaggi e destinati a altri interlocutori.

Per chi sono scritti gli avvisi pubblici, le delibere, le determine? Per tutti. Certo non per singole fasce di cittadini, con l'esclusione di altri. Tuttavia, l'impressione che si ricava dalle loro letture è diversa: che siano destinate allo stretto circuito che passa dagli “interni” agli addetti ai lavori e viceversa. Quindi operare sulla comunicazione istituzionale degli enti pubblici, in particolare quella scritta, con l'intento sia di semplificare i linguaggi sia di mirarli sul target prescelto, è un impegno imprescindibile e un fattore essenziale per favorire la trasparenza e la fattiva collaborazione tra istituzione e cittadino.

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