Paolo Prodi. La mia avventura trentina
in Pubblicazioni e Libri

Paolo Prodi

La mia avventura trentina

Franco Sandri Mauro Marcantoni

Quarta di copertina

«L'avventura trentina» di Paolo Prodi si può senz'altro ritenere esemplare. È conosciuto come storico, e la sua vasta produzione di pubblicazioni lo documenta. Ha svolta attività determinanti all'interno dell'Università italiana, prima come ricercatore, poi come docente, come innovatore in proposte a raggio nazionale all'Ufficio Studi e Programmazione del Ministero della Pubblica Istruzione, come progettista delle sue (Calabria e Trentino).

In Trentino, in particolare, ha investito il suo bagaglio di conoscenza e di esperienza nel disegno di un'Università regionale, ponte tra cultura mediterranea e cultura germanica e qui soprattutto si riesce ad intuire l'estensione e la pregnanza del progetto politico del binomio Prodi-Kessler non solo e non tanto su un'università locale-regionale, quanto sull'intero arco della formazione e della cultura, quali premesse necessarie alla mission di un vivere sociale nuovo, di una società in perenne rinnovamento.

Prezzo: 18,00
Fondazione Museo Storico del Trentino

Introduzione, di Paolo Pombeni

 

1.DALL'INFANZIA ALLA FORMAZIONE SCIENTIFICA

1.Il comune humus del sapere

2.Gli anni della crescita, degli studi e della formazione politica

3.L'Università e lo straordinario ambiente milanese

4.Maritain, Mounier e il gruppo La Corrente

5.Tanti fermenti per nuove idee

 

2.GLI ANNI DELL'IMPEGNO POLITICO E INTELLETTUALE

1.La «rottura» con Giuseppe Dossetti e il ritorno a Milano

2.Teologia e filosofia in Francia, ricerca storia in Germania

3.La teologia della liberazione, dal Vietnam all'America Latina

4.Il ‹mestiere di storico›, come base e come principale attività

 

3.L'IMPEGNO PER L'UNIVERSITÀ

1.Progettare l'università nel Sessantotto

2.Progettare l'università in Trentino

3.I difficili rapporti con i politici sudtirolesi

4.Un progetto riuscito a metà

5.L'Istituto storico italo-germanico

 

4.LA SCUOLA

1.I presupposti del «progetto scuola» in Trentino: l'ITC

2.Il ‹sistema scolastico trentino›

3.Due teste con il chiodo fisso del sapere

4.La base di partenza

5.L'autonomia d'inizio anni settanta

6.I Distretti scolastici e la comunità educante

7.Occasioni perse

 

APPENDICE DOCUMENTARIA

1.INCONTRI

1. Maestri «per aprirmi gli occhi»

2. Giuseppe Dossetti

3. Ivan Illich

4. Giovanni Gozzer

5.Bruno Kessler

 

2.L'UNIVERSITÀ

1. Ipotesi per un sistema universitario regionale

2. Autonomia universitaria e autonomia regionale

3. Politica, società e cultura

4. La programmazione universitaria

 

3.UNIVERSITÀ DI TRENTO

Stralci dai Verbali del Consiglio di amministrazione dell'Università di Trento

 

4.LA STAMPA LOCALE

1.Fulvio Gardumi «La ‹libera› Università di Trento diventa statale ma rimane ‹autonoma›. Vita trentina. Trento, a.52, n. 24, 12 giugno 1977

2. «Università residenziale legata al territorio». Vita trentina. Trento, a.52, n.31, 31 luglio 1977

3. «Prodi si dimette dall'Università». Alto Adige. 27 luglio 1977

4.«Prodi lascia l'Università».L'Adige.26 luglio 1977

5.«Le dimissioni di Prodi».L'Adige.27 luglio 1977

6.«Paolo Prodi, Università: i pericoli da evitare». Vita trentina. Trento, a.52, n.43, 30 ottobre 1977

 

5.IL SISTEMA SCOLASTICO TRENTINO

1.Il Distretto scolastico (in: Il Distretto scolastico.A cura  dell'Ufficio studi e programmazione del Ministero della pubblica istruzione, atti del convegno di Frascati, maggio 1972, stralci)

 

Contributo per una bibliografia di Paolo Prodi

Riferimenti bibliografici

Indice dei nomi

di Paolo Pombeni

Davvero quella di Paolo Prodi a Trento è stata un'‹avventura›. Nel complesso percorso di vita e di lavoro di questo studioso gli anni trentini, che, fra una cosa e l'altra, hanno coperto più di un ventennio (dal 1972 formalmente fino al 1997, quando lasciò la carica di direttore dell'Istituto storico italo-germanico), rappresentano un momento importante. Bene hanno fatto Mauro Marcantoni e Franco Sandri a restituirne una prima ricostruzione che ne copre gli anni iniziali, quelli in cui Prodi fu ad un tempo il costruttore dell'‹università di Trento› (perché fino ad allora si trattava solo di un Istituto superiore con una Facoltà) e il promotore di una più vasta riflessione sul ruolo che il sistema formativo, dalle scuole dell'infanzia sino agli studi universitari, doveva avere nel quadro di un'‹autonomia› intesa non come semplice privilegio a favore di alcune ne¬cessità storiche, ma come potente strumento di autogoverno di una realtà che stava uscendo, in maniera brillante, dalla prima fase di sviluppo degli anni sessanta.


Se dimentichiamo questo retroterra non comprendiamo molto di questa av¬ventura. Il lettore scoprirà piacevolmente, come è capitato a me leggendo queste pagine, quanto l'eredità di quella stagione sia viva ancora oggi: non solo perché si vedono le radici di risultati brillanti che sono stati ottenuti, ma anche, ed è un aspetto niente affatto secondario, perché si coglie anche la consapevolezza che allora già c'era una serie di criticità che a quarant'anni di distanza rimangono ancora in campo.


Anticipo subito una considerazione. Quando il lettore leggerà, forse per la pri¬ma volta come è successo a me, stralci del convegno di Frascati del 1972 sul problema della riforma della scuola, non potrà fare a meno di chiedersi come mai, quarant'anni dopo, siamo ancora più o meno a quel punto (o forse stiamo anche peggio). Un merito non piccolo dei due autori è anche quello di avere pubblicato la lucida relazione che, richiesto da Prodi, tenne in quell'occasione Giovanni Gozzer: potrebbe utilmente essere assunta come punto di riferimen¬to da chi oggi vorrebbe, meritatamente, riprendere il discorso sullo sviluppo del nostro sistema educativo.


Non stiamo deviando dal nostro tema. La chiamata di Prodi a Trento da parte di Kessler si inserisce, come è ben documentato nelle pagine che seguono, nel suo tentativo di portare a termine il progetto riformatore che aveva intra¬preso a partire dagli anni sessanta. L'allora presidente della Provincia aveva sempre scommesso sulla necessità per la sua terra di trarre profitto dalle op¬portunità di un momento storico fortemente creativo come era quel decennio: un fenomeno non solo italiano, ma europeo, perché davvero gli anni sessanta furono gli anni d'oro del riformismo, con una convergenza di energie intellet¬tuali e di energie politiche piuttosto peculiare.


Kessler, che, come è noto, respingeva il topos del «Trentino piccolo e solo», capì che un territorio come il suo poteva cogliere un'opportunità storica solo che avesse coniugato le possibilità di governo offerte dalla sua peculiarità isti¬tuzionale come regione autonoma con l'accettazione della sfida della moder¬nizzazione indotta dallo sviluppo economico. Oggi abbiamo perso memoria di quanto audace sia stata quella decisione, perché il famoso quieta non movere era un vessillo in una società in cui erano forti le componenti conservatrici (o più semplicemente spaventate dalle trasformazioni sociali che erano in corso).
Qui val la pena di richiamare brevemente la vicenda della fondazione della Facoltà di sociologia, perché è necessario per comprendere quale sarà poi il ruolo assegnato a Prodi nel prosieguo di questa storia. L'ambizione di Trento a divenire sede universitaria risaliva al periodo asburgico, ma nel secondo do¬poguerra sembrava confinata nell'orizzonte localistico di avere, magari come decentramento di qualche importante ateneo, una facoltà di scienze forestali. Kessler volle invece puntare, anziché su quell'approccio da regione ‹monta¬nara› e marginale, sull'ambizione di portare a Trento quel che in Italia non era disponibile, cioè una Facoltà di sociologia, cioè dove s'insegnasse quella scienza che allora era ritenuta indispensabile per governare e promuove il nuovo sviluppo.


L'esperimento aveva avuto successo in quanto aveva portato Trento progres¬sivamente alla considerazione del sistema universitario italiano, rivelando su¬bito un'attrattività del nuovo istituto che andava ben oltre i confini della sua area di insediamento, ma aveva anche comportato problemi di convivenza con quella realtà sociale. I fatti legati alla stagione delle insorgenze studentesche e poi operaie del biennio 1968-1969 sono troppo note perché sia necessario spendervi parole.


La vicenda che porterà Prodi a Trento comincia da questa crisi. C'era allora una forte spinta a considerare l'esperienza universitaria attorno a Sociologia come un esperimento da chiudere. Kessler resistette, non per evitare di rico¬noscere un calcolo sbagliato, ma perché cosciente che si era di fronte all'ine¬vitabile impatto di fenomeni che venivano da un contesto generale per cui era salutare che il Trentino imparasse così a considerarsi parte del mondo e non una specie di riserva indiana confinata fra le sue montagne. Ciò non significa¬va ignorare le criticità di una situazione, ma rispondervi andando avanti, analiz¬zandole e proponendo nuove soluzioni, anziché semplicemente arrendersi al ritorno forzoso allo status quo ante.
La soluzione che venne individuata, sia pure con un percorso che prese tem¬po, fu il passaggio dalla ‹monocultura› di Sociologia a un vero Ateneo con una pluralità di specializzazioni. Per questo passaggio serviva un ‹timoniere› e per questo Kessler si rivolse a Paolo Prodi.


Come sottolineano Marcantoni e Sandri, il Presidente della Provincia non aveva una precedente frequentazione con il professore bolognese, che era relativamente giovane per quell'incarico (nato nel 1932, era un quarantenne), ma aveva già alle spalle un brillante percorso. Giustamente gli autori hanno fornito per il lettore una ricostruzione dell'attività di Prodi prima del suo arrivo a Trento. Ciò che va sottolineato è la multiforme attività che aveva coinvolto questo studioso, quella inquietudine intellettuale che ne ha connotato l'espe¬rienza molto più di quanto normalmente non si creda oggi. Dai contatti con l'ambiente dossettiano a Reggio Emilia e poi a Bologna, agli anni alla Cat¬tolica di Milano, ricchi di incontri e stimoli intellettuali, al suo passaggio per esperienze in America Latina, al coinvolgimento nel back stage di Lercaro e Dossetti al concilio Vaticano II, infine all'approdo all'Ufficio studi del Ministero della pubblica istruzione, Prodi aveva alle spalle qualcosa di più e di diverso dal normale percorso di uno studioso di storia moderna.
Non che quella dimensione fosse marginale e, per così dire, circoscritta in una parentesi che si chiudeva con l'arrivo alla cattedra nel 1969, circoscritta come non è infrequente in studiosi che a un certo punto si dedicano a ruoli pubblici di responsabilità, di fatto abbandonando la ricerca. Un dato che forse sfugge a chi non è del mestiere è come Paolo Prodi non abbia mai smesso di essere uno studioso non solo attivo, ma di alto livello. L'elenco della sua produzione, che giustamente gli autori hanno messo in appendice a questo volume, è di una densità impressionante. Noteremo più avanti quanto feconda sia stata la sua attività di studioso dopo la conclusione del suo periodo di rettorato.


Prodi giungeva dunque a Trento con un compito non facile: promuovere la realizzazione in questa città di un vero Ateneo. Come si vedrà dalla ri¬costruzione fatta da Marcantoni e Sandri, il nuovo rettore aveva accettato una scommessa in controtendenza con quanto si pensava agli inizi degli anni settanta, cioè il fatto che un'università ‹piccola› e legata a un forte ente locale potesse diventare un polo di eccellenza. In genere le università ‹pe¬riferiche› erano ritenute solo dei servizi di modesto livello ai localismi e dei parcheggi dove far approdare o giovani docenti promettenti, che presto se ne sarebbero andati verso lidi migliori, o professori che si sistemavano in tranquillità lontano dagli affanni (come sempre, esistevano eccezioni, ma il trend era questo).


Oggi, dopo la pubblicazione di recenti classifiche, è facile notare che quella scommessa è stata vinta e che l'Università di Trento non è affatto un ateneo periferico a servizio di piccole esigenze localistiche. Nel 1972 immaginarsi questo traguardo significava osare. È vero che Kessler sosteneva l'impresa ed è altrettanto vero, cosa che si tende a dimenticare e a sottovalutare, che esisteva un contesto politico e culturale favorevole all'impresa. Trento non era quella morta gora che è stata descritta con superficialità da qualcuno dei docenti che avevano fatto un passaggio nel suo ateneo: aveva una classe dirigente, sia a livello politico che amministrativo, in cui vi erano molte persone di qualità, aveva delle eccellenze nella classe insegnante dei vari ordini (come era un tempo costume nelle province avanzate), disponeva di una sua vita intellettuale che, per quanto si svolgesse in modo abbastanza riservato, era inserita nei trend culturali non solo italiani.
Uno degli aspetti della presenza di Prodi che è giusto ricordare è lo sforzo che egli fece per inserirsi in questo mondo, mostrandosi lontano dalle spocchio¬serie che non di rado hanno contraddistinto il rapporto dei docenti approdati all'ateneo trentino con il contesto ambientale.


Il suo progetto di ateneo era indubbiamente complesso: puntava sul fatto che un robusto sviluppo di facoltà scientifiche avrebbe introdotto uno stile di stu¬dio e di vita diverso da quelli dei ‹sociologhi›. Soprattutto riteneva che i docen¬ti di quelle nuove facoltà, legati com'erano al lavoro di laboratorio, si sarebbero più facilmente inseriti nella vita locale, sarebbero diventati ‹residenti› in con¬trapposizione con il ‹pendolarismo›, a volte frenetico, dei docenti di scienze umane e sociali. In realtà la sua battaglia per la ‹residenzialità› dei docenti non diede grandi frutti nel periodo del suo rettorato e fu uno dei fattori che lo amareggiarono e lo disamorarono da quell'avventura. Col senno di poi, aveva avuto troppa fretta di vedere i risultati, perché se, come dice un proverbio inglese, Roma non è stata costruita in un giorno, questo vale ancor più per un ateneo. Era necessario che più che al ‹trasferimento di residenza› di docenti ormai affermati venuti da fuori (impresa non semplice nelle situazioni attuali della vita familiare) si potesse puntare su giovani emergenti che si trasferivano a Trento sin dagli inizi della carriera: un percorso per la cui realizzazione era indispensabile misurarsi con il medio periodo.
Un'intuizione molto importante fu invece quella che inseriva la questione uni¬versitaria in un più complesso panorama che aveva due versanti: la creazione accanto all'università di centri di alta ricerca complementari all'Ateneo, ma non appartenenti ad esso e l'impegno per un sistema scolastico che fosse all'al¬tezza dell'innovazione che si introduceva con l'elevazione di Trento a pieno titolo al rango di sede di un ateneo chiamato a esser protagonista.


La vicenda che portò alla creazione prima dell'Istituto storico italo-germanico (ISIG), poi dell'Istituto di scienze religiose (ISR) e infine dell'Istituto per la ri¬cerca scientifica e tecnologica (IRST) è accennata nelle pagine che seguono, ma meriterà in futuro ulteriori approfondimenti, perché costituisce un unicum nel panorama della ricerca accademica italiana.


Prodi si era reso subito conto che un ateneo non poteva vivere privo di un robusto retroterra di ricerca, ma sapeva anche, per esperienza personale che la farragiosa legislazione universitaria italiana, allora come oggi, rende assai difficile, la creazione in libertà di laboratori di ricerca che possano rispondere alla domanda competitiva che a livello internazionale s'impone a tutti gli ambiti scientifici. Era necessario, dunque , creare istituti accanto, ma no dentro, il complicato sistema universitario vigente negli atenei. Indubbiamente Prodi aveva davanti l'esperienza dell'istituto di ricerca per le scienze religiose che Giuseppe Dossetti aveva creato a Bologna dopo il suo ritiro dalla politica agli inizi degli anni cinquanta. In quell'Istituto, che allora si chiamava più semplicemente centro di documentazione, Prodi era cresciuto culturalmente, sebbene con un rapporto assai personale con il progetto dossettiano, sempre in bilico fra la promozione di un istituto di alta ricerca e la creazione invece di una comunità di ‹vocati› che, pur nel rigore assoluto degli studi, servivano un pro¬getto di riforma della Chiesa. Dossetti a fine anni sessanta si era allontanato dalla sua creatura e questo aveva creato una tensione fra i suoi allievi che era¬no rimasti sul versante della ricerca accademica (Giuseppe Alberigo, Paolo Prodi, Boris Ullianich), finché le tensioni avevano portato Alberigo al vertice dell'Istituto mentre gli altri due prendevano loro strade.


Prodi, dunque, giungeva a Trento con quell'esperienza alle spalle, da cui aveva imparato quanto una ricerca libera dagli impacci del mondo accademico italia¬no potesse portare a risultati di eccellenza. In fondo lo avevano formato i suoi studi sul conciliarismo, il suo contatto forte con Hubert Jedin a Bonn, il grande storico tedesco che aveva rinnovato gli studi sul Concilio di Trento utilizzando le fonti che per secoli erano state rese inaccessibili agli studiosi. Da lui aveva tratto quell'approccio storiografico che leggeva il grande passaggio storico fra Quattrocento e Cinquecento non come scontro fra una riforma protestante e una controriforma cattolica, ma come tutto un fiorire di progetti di riforma della Chiesa in dialogo con la cultura del tempo, progetti che avrebbero poi preso strade diverse portando alla divisione fra le confessioni religiose, ma an¬che a sviluppi culturali fuori di quegli scontri. È chiaro che Trento, come sede del grande Concilio, che, come Jedin aveva ristabilito dopo secoli di contro¬versie, non aveva avuto in mente di contro-riformare la Chiesa romana, ma di adeguarla alle domande di riforma che venivano dai grandi dibattiti dell'epoca, esercitava un richiamo evocativo sullo studioso che per di più aveva vissuto di persona la tensione del nuovo grande Concilio del XX secolo.


Poter continuare un'esperienza di ricerca in un ambiente favorevole significava per Prodi realizzare le condizioni per non rendere il suo rettorato semplice¬mente una pur interessante avventura amministrativa. Inoltre proprio uno degli aspetti simbolici del Concilio di Trento, l'essersi collocato in una città che stava al confine fra il mondo latino e il mondo germanico, gli suggeriva quella che avrebbe a suo giudizio dovuto essere la missione di un ateneo inserito nella realtà peculiare della Regione a statuto speciale: il ricreare il grande ponte culturale fra il mondo tedesco e il mondo latino, cioè fra i due mondi a cui Prodi sentiva di appartenere.
Come è documentato in queste pagine, il suo sogno di creare un ateneo italo-tedesco, con un polo a Trento e uno a Bolzano, fallì per l'opposizione all'impresa di una comunità sudtirolese che, nei suoi ceti dirigenti soprattutto, viveva ancora sotto l'incubo dell'assimilazione forzata all'Italia e che voleva sentirsi più ‹austriaca› che ‹tedesca›. Anche in questo caso il tempo sembre¬rebbe poter dare oggi ragione alle intuizioni di Prodi. Adesso il problema della difesa dall'assimilazione si pone in termini completamente nuovi in società che diventano a ritmi veloci multiculturali e in cui la fruizione dei rapporti culturali con mondi diversi è resa assai facile dalle innumerevoli reti di connessione veloce. Non solo la fondazione di un ateneo a Bolzano, ma gli accordi che nel quadro dell'Euregio sembrano possibili fra gli atenei di Trento, Bolzano e Innsbruck potrebbero forse, se ci sarà un po' di lungimiranza politica, portare a qualcosa di simile a quanto Prodi si augurava agli inizi degli anni settanta.


Allora, nell'impossibilità di avviare sul piano universitario il progetto di ripresa della fecondazione reciproca fra il mondo latino e il mondo tedesco, scelse di farlo con un istituto storico dove fosse possibile mettere le basi per quel lavo¬ro. Lo sforzo per fare dell'ISIG un centro di ricerca conosciuto a livello inter¬nazionale fu imponente e certo beneficiò dei notevoli mezzi finanziari che allora Kessler poteva mettere a disposizione (ma lui aveva la lungimiranza per farlo, mentre altri, che pure avevano mezzi simili, non riuscivano a capire il respiro di progetti di questo tipo).All'impresa cooperarono intensamente Pierangelo Schiera e sua moglie Giuliana Nobili, che Prodi fece venire da Bologna, men¬tre chiamava a presiedere l'Istituto il suo maestro Jedin.


L'avventura di Prodi come rettore durò poco più di un quinquennio, ma, come s'è già detto, sarebbe rimasto altri quindici anni alla guida dell'ISIG, che ac¬quistava un peso internazionale sempre maggiore. Nel suo ambito avviava le grandi ricerche che avrebbero segnato la seconda fase del suo percorso di studioso: quelle sulle radici religiose e laiche del potere e dei sistemi di or¬ganizzazione della sfera socio-politica. Si tratta di ricerche che sono rimaste fondamentali, conosciute e apprezzate a livello internazionale, nate nell'ambito di quella ‹fucina trentino-internazionale› che fu l'ISIG della sua prima fase. Il tema del ‹disciplinamento› come chiave per l'interpretazione della formazione della sfera politica moderna fu uno degli apporti conoscitivi che fecero affer¬mare l'ISIG a livello internazionale.
Come ho accennato all'inizio, un merito importante del lavoro di Marcantoni e Sandri è, però, di avere tolto dall'oblio il contributo di Prodi al problema della riforma del sistema scolastico. Forse è comprensibile che in un Paese come il nostro, in cui da cinquant'anni si discetta su riforme della scuola e la si è ridotta sempre peggio, si sia finito per buttare via il bambino con l'acqua sporca. Invece è opportuno recuperare il meglio delle riflessioni del passato, soprattutto di quelle realizzate quando il fiato sul collo delle ideologie a uso dei giornali era meno pressante.


Ho già avuto modo di ricordare quanto sia interessante la documentazione sul convegno di Frascati del 1972 riportata in appendice a questo volume, in particolare l'intervento di Giovanni Gozzer. Tutta l'impresa dei compren¬sori scolastici è però paradigmatica dell'attenzione che una classe dirigente ebbe verso un problema che percepiva come centrale. I trentini allora sape¬vano bene (mentre oggi hanno perduto quella memoria) che la loro forza era in buona parte derivata dalla fruizione di un ottimo sistema scolastico che derivava ancora la sua capacità dalle radici delle grandi riforme asburgiche, a cominciare da quelle dell'imperatrice Maria Teresa. Non si poteva però più vivere sugli allori: certo andavano mantenute e migliorate alcune imprese storiche, come la eccellente scuola legata al mondo dell'agricoltura a San Michele, ma nel pieno XX secolo bisognava investire anche su un'istruzio¬ne professionale moderna, nonché incrementare le possibilità di formazione superando gli impedimenti che derivavano da un sistema di comunicazioni ancora di non agevole gestione per la configurazione geografica dei territori. Eppure omogeneizzare l'offerta su tutta la provincia, alzare le opportunità di fruizione ampia del percorso scolastico, incrementarne la qualità, erano obiettivi che stavano alla base di qualsiasi progetto mirasse a vincere la sfida della modernizzazione.


Per realizzare in maniera ‹scientifica› il piano d'intervento nel settore scolasti¬co, la Provincia di Trento si dotò di un ufficio studi presso l'assessorato ad¬detto (dove, lo ricordo per inciso, lavorarono i due autori di questo volume).Fu un'esperienza breve, ma intensa, poi andata dispersa, come viene ricordato nelle pagine che seguono, per il cambio al vertice del Ministero nazionale della pubblica istruzione, ma soprattutto per la fine dell'‹era Kessler› nel 1976, che portò nel giro di tre anni alla fine anche dell'esistenza dell'ufficio studi presso l'Assessorato provinciale alla pubblica istruzione.
L'esigenza di un'integrazione del sistema di istruzione, dalla scuola dell'infan¬zia all'università, così come il ripensamento delle sue qualità e la promozione di un suo adeguamento alle nuove domande di una grande fase di transizione storica torna oggi a essere percepito come imprescindibile e forse anche af¬frontato lasciandoci alle spalle passati ideologismi d'accatto. Al tempo stesso il Sistema trentino dell'alta formazione e della ricerca (STAR, nell'impegnativo acronimo con cui lo si è voluto connotare) dovrebbe tornare a impegnarsi in un modello di integrazione a rete e di reciproca connessione, uscendo da un certo limbo in cui mi pare al momento confinato.


Il libro che ora il lettore ha fra le mani non ha, dunque, lo scopo di un amar¬cord senza senso o di un nostalgico heri dicebamus, ma ripropone alla nostra riflessione una stagione e l'esperienza di un suo protagonista. Ci ripropone cioè delle radici. Sta a noi non fare inaridire la bella pianta che, con tutte le traversie che comporta il passare delle stagioni, si è sviluppata da esse.

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