Politiche per la cultura in Europa
in Pubblicazioni e Libri

Politiche per la cultura in Europa

Modelli di governance a confronto

Francesco Giambrone

Quarta di copertina

È possibile in Italia mutuare dagli altri paesi modelli, prassi, buone pratiche che ci consentano di affrontare, anche nel campo delle politiche culturali, le sfide necessarie al cambiamento dettato dalla crisi attuale? È possibile immaginare un nuovo impegno riformatore della classe dirigente italiana che faccia tesoro delle esperienze positive altrove consolidate? È possibile aprire una riflessione seria sul tema della gestione delle Istituzioni culturali, dalla valorizzazione del nostro grande patrimonio alla distribuzione delle risorse pubbliche? Infine, è possibile restituire centralità alle politiche culturali rispetto all'azione di governo?

Questo volume vuole fornire uno strumento di conoscenza di modelli differenti dal nostro, modelli che pur avendo subìto negli anni molte trasformazioni hanno dimostrato nei diversi contesti di funzionare. I paesi oggetto dell'analisi sono, oltre al nostro, la Francia, il Regno Unito e la Germania. L'obiettivo è quello di stimolare una riflessione concreta sui cambiamenti e sulle innovazioni che si possono proporre per rendere il sistema italiano più produttivo, più sostenibile, più efficiente, lasciandosi alle spalle la condizione di trascuratezza e di abbandono in cui tutto il mondo della cultura – e quello dello spettacolo dal vivo in particolare – versa ormai da troppo tempo.

Prezzo: 49,00
Angeli Franco

Presentazione, di Claudio Martinelli

Prefazione, di Carlo Azeglio Ciampi

Introduzione, di Francesco Giambrone

 

Parte prima. ITALIA

1. Qualche riflessione sulla situazione italiana

1.1. Esiguità delle risorse

1.2. Inadeguatezza della classe dirigente e scarsa rilevanza delle politiche culturali

1.3. Invadenza e interferenza della politica

1.4. Debolezze di sistema: un apparato legislativo parziale e incompleto

1.5. L'effetto combinato dell'esiguità delle risorse, dell'inadeguatezza della classe dirigente e dell'incompletezza dell'apparato normativo

1.6. Crisi e criticità. Alcune riflessioni di sistema

2. Quadro di contesto

2.1. L'intervento dello Stato

2.2. L'intervento dei diversi livelli territoriali

2.3. L'intervento privato

3. Alcune considerazioni finali

Riferimenti bibliografici

 

Parte seconda. FRANCIA

1. Le politiques culturelles francesi: dal concetto di “monarchie culturelle” al modello di decentramento culturale

1.1. Gli obiettivi-chiave delle politiche culturali francesi

1.2. Assetto e ruolo dell'odierno Ministère de la Culture et de la Communication

1.3. La cooperazione tra il Ministero della Cultura e le amministrazioni locali

1.4. Il finanziamento ministeriale al sistema cultura e l'apporto delle amministrazioni locali

1.5. La cooperazione culturale internazionale

2. Lo spettacolo dal vivo in Francia

2.1. I cinque teatri nazionali (théâtres nationaux)

2.2. I 33 centres dramatiques nationaux (CDN) e i 6 centres dramatiques régionaux (CDR)

2.3. Scènes nationales e scènes conventionnées

2.4. Le strutture autonome (compagnies dramatiques indépendantes)

2.5. I poli lirici: le 13 Opéras en région

2.6. Le orchestre sinfoniche

2.7. La danza

2.8. I 7 Centres de Création Musicale e altre strutture polifunzionali (Cafés Musiques)

2.9. Il Théatre du Châtelet di Parigi: gestione municipale e teatro d'innovazione. Un paradosso?

Riferimenti bibliografici e siti di riferimento

 

Parte terza. REGNO UNITO

1. Il principio anglosassone dell'arm's length ed il sistema delle agenzie pubbliche non ministeriali (non-departmental public bodies)

1.1. L'evoluzione del quadro storico relativo al finanziamento alla cultura britannica

1.2. Le recenti politiche di decentramento culturale

1.3. La cooperazione interministeriale ed intergovernativa

1.4. La promozione della cultura britannica all'estero

1.5. Il finanziamento privato: tipologie, evoluzione e ripartizione geografica

1.6. Aspetti legislativi e misure fiscali applicate al settore culturale

1.7. La National Lottery come modello aggiuntivo di finanziamento culturale

2. Il settore delle performing arts nel Regno Unito

2.1. L'Inghilterra: i canali di finanziamento e gli obiettivi strategici dell'Arts Council England

2.2. Il Galles: dati quantitativi e finanziamenti complessivi

2.3. La Scozia: la peculiarità dell'assetto scozzese

2.4. L'Irlanda del Nord

2.5. The Edinburgh International Festival: vital, successful, courageous, transformative

Riferimenti bibliografici e siti di riferimento

 

Parte quarta. GERMANIA

1. Le politiche culturali in Germania: assetti e peculiarità del sistema culturale tedesco

1.1. Il ruolo costituzionale del Bund e l'impostazione federale della Kulturpolitik tedesca

1.2. Le politiche culturali a livello regionale e locale: il ruolo dei Länder e dei Comuni

2. Il sistema dello spettacolo dal vivo in Germania

2.1. Peculiarità gestionali e strutture organizzative del sistema repertoriale tedesco

2.2. Il modello dello Stadttheater come archetipo produttivo del sistema repertoriale tedesco

2.3. I teatri lirici (Opernhäuser)

2.4. I teatri regionali (Landestheater)

2.5. I teatri privati

2.6. Le orchestre lirico-sinfoniche, sinfoniche e radiotelevisive: suddivisione tipologica dei 130 complessi pubblici, attività concertistiche e framework legislativo

2.7. Il settore della danza e quello dei festival

2.8. La fondazione lirica di Berlino (Stiftung Oper in Berlin)

Riferimenti bibliografici e siti di riferimento

 

Parte quinta. CONFRONTI E CONCLUSIONI

1. Una considerazione iniziale

2. Cosa dovrebbe unire le politiche culturali europee

3. Cosa differenzia le politiche culturali europee

4. Conclusioni

Riferimenti bibliografici 

di Carlo Azeglio Ciampi

 

L'intento di condurre un esame comparato delle politiche culturali dei paesi con i quali, per prossimità geografica e, soprattutto, per tradizioni storiche e di civiltà, siamo soliti confrontarci è un obiettivo più che lodevole; altamente meritorio. Meritorio a tal punto, da farmi superare l'iniziale esitazione a corrispondere, con la presente breve nota, alla garbata richiesta degl i Autori; una riserva dettata solo dalla consapevolezza che l'età mi impone di essere molto parco nell'assumere impegni e altrettanto oculato nell'amministrare le mie energie.

Il lavoro curato da Giambrone e Brunner si segnala per il rigore con cui l'analisi è stata condotta. Tuttavia, prima ancora del valore scientifico e del metodo impiegato, è l'iniziativa stessa assunta dai curatori che va salutata con soddisfazione. A questa, infatti, va riconosciuto il non secondario fine del tentativo di estirpare la pianta infestante di un provincialismo che sempre e comunque inneggia a tutto quel che si trova o accade oltre l'uscio di casa; di talché il migliore dei mondi è sempre altrove.

Sgombrata la mente dal pre-giudizio, con l'onestà e l'umiltà di chi si ispira al “conoscere per deliberare” di einaudiana memoria, gli Autori si danno carico di mettere a confronto modelli differenti: confronto che ha il pregio di basarsi sulla realtà incontrovertibile del dato di fatto, esaminato nel proprio contesto di riferimento, che non può prescindere dalle determinanti storiche e istituzionali.

Le difficoltà finanziarie che attanagliano senza sostanziali differenze le Amministrazioni centrali e locali dei vari paesi sono, per usare il linguaggio degli economisti, la variabile esogena che condiziona pesantemente, quando non determina del tutto, la definizione delle politiche culturali, in particolare nel settore delle performing arts.

Un settore che in Italia mostra segni di sofferenza proprio in conseguenza delle restrizioni imposte dagli equilibri contabili.

Ciononostante, non è facile rassegnarsi, quasi fosse un destino ineluttabile, a uno stato di cose in cui, per esempio, istituzioni cariche di storia, di memoria, di tradizione, rischiano di “scomparire”, come di recente si è avuto motivo di temere per un glorioso teatro di Roma.

Non voglio entrare nel merito di questioni complesse; non ne ho adeguata conoscenza; né posseggo le necessarie competenze. Men che meno è mia intenzione aggiungere un personale contributo alle già numerose polemiche che accompagnano siffatte questioni, non di rado all'interno dello stesso ambiente artistico. Il caso del teatro romano, appena ricordato, non è, purtroppo, l'unico, amarissimo episodio in una più ampia, sconsolante realtà.

La stessa industria cinematografica lamenta una scarsa attenzione da parte delle Autorità competenti. Abbiamo visto gli “addetti” al settore – attori, registi, sceneggiatori – mobilitarsi in difesa di un'“arte” che in passato ha dato all'Italia, con soddisfazioni e riconoscimenti ai massimi livelli nella scena internazionale, un impareggiabile mezzo per “esportare” il nostro stile di vita; per rappresentare con intensità e varietà di accenti lo spirito di un popolo, un misto di arguzia, tolleranza, bonomia, capacità di sorridere nel dramma, ma anche di grande dignità, di senso del dovere, di spirito di sacrificio, di solidarietà generosa.

Non è mancata, in proposito, la parola autorevole del Capo dello Stato, a rendere testimonianza al ruolo che il cinema italiano ha svolto nella storia culturale dell'Italia repubblicana.

Altrettanto ci inquieta vedere una tradizione illustre e così schiettamente italiana, qual è l'opera lirica, affrontare con affanno l'incertezza della presente congiuntura; persino le istituzioni più prestigiose, come La Scala, non sfuggono a condizioni di così generalizzata difficoltà.

Se questa è la sorte riservata a forme ed espressioni artistiche di più consolidata tradizione, che possono contare su un pubblico “stabile” nei gusti e “fedele” nelle preferenze, come non guardare con crescente apprensione alle possibilità residue per l'attività di ricerca e di sperimentazione di linguaggi e generi innovativi. L'arte ha bisogno, come del resto ogni altro campo in cui l'uomo opera, di rinnovarsi; di cercare strade nuove che solo la sensibilità dell'artista individua e percorre per primo, cogliendo in embrione umori, sentimenti che più tardi, manifestamente, orienteranno i gusti del pubblico.

Certamente, in presenza di mezzi finanziari limitati occorre innalzare l'asticella dei criteri selettivi; nessuno può respingere a priori l'esito di uno scrutinio severo, l'essenziale è che si sappiano riconoscere, cogliere, laddove si presentano, “l'idea buona” e il talento vero.

Non giova a nessuno, e soprattutto non giova alla cultura, incoraggiare l'improvvisazione e il dilettantismo; chiudere un occhio in nome di un malinteso senso di socialità di fronte a iniziative e a performance in sé degnissime, purché restanti nei ranghi di attività “amatoriali”.

Forme di partenariato pubblico-privato possono, anche sotto questo aspetto, rivelarsi efficaci nel vaglio delle proposte.

Il confronto di esperienze maturate in paesi diversi, dei risultati conseguiti come degli “insuccessi” subiti; lo scambio che questo confronto può attivare tra i “soggetti” del settore, dagli organismi amministrativi ai responsabili “artistici” sono fattori di conoscenza fondamentali per disegnare strategie vincenti; laddove si rivela vincente quella strategia che sa valorizzare autenticamente la cultura nel quadro delle compatibilità che il “buongoverno” fissa, garantendone al tempo stesso il rispetto.

Rinnovo il mio apprezzamento per gli Autori, con l'auspicio che questo loro lavoro metta in moto le forze giuste per promuovere una “causa” giusta; come sono giusti gli impegni, le iniziative, gli sforzi messi in atto in nome della cultura: da sempre, per sempre, una causa “giusta”.

Introduzione

Perché studiare i diversi modelli europei

di Francesco Giambrone

 

In un breve ma fondamentale saggio sulla mortificazione del patrimonio culturale in Italia, Salvatore Settis riflette sul modo in cui i politici italiani hanno affrontato il tema della gestione e della valorizzazione dei beni e delle istituzioni culturali. L'assunto da cui parte Settis per la sua riflessione è che nella classe politica e nella società civile italiana è invalsa l'opinione che l'esperienza americana sia la dimostrazione che la gestione privata delle istituzioni culturali funzioni meglio di quella pubblica e che, dunque, il modello americano sia quello da prendere ad esempio. Al punto che i nostri ministri ritengono che la gestione “all'americana” delle istituzioni culturali, e in particolare dei musei, sia il “rimedio universale per la situazione italiana”. L'equazione è la seguente: i musei americani mostrano da sempre grande dinamismo, notevole capacità produttiva ed esemplare efficienza gestionale; e sono interamente privati. I musei italiani sono lontanissimi da quel dinamismo, da quell'efficienza e da quei risultati e sono, invece, nella quasi totalità dei casi a gestione pubblica. La soluzione del problema sarebbe dunque a portata di mano: rendere i nostri musei altrettanto dinamici ed efficienti attraverso la loro privatizzazione. Questo atteggiamento, secondo Settis, dimostra due cose. La prima è che i nostri politici viaggiano molto frequentemente negli Stati Uniti. La seconda è che lo fanno sempre per periodi piuttosto brevi. Ne viene fuori un grande equivoco. Il contatto con sistemi e modelli di gestione dei beni e delle istituzioni culturali diversi dai nostri si ferma sempre a un livello piuttosto superficiale. Il tempo di permanenza negli Stati Uniti è sufficiente per rendersi conto del fatto che all'estero le cose funzionano molto meglio che in Italia, il che convince i nostri politici della bontà di quei sistemi; ma non è sufficiente per studiare e conoscere a fondo quei modelli così diversi. Risultato: i nostri politici tornano in patria con la convinzione che sia possibile replicare, in maniera automatica, il modello americano nel nostro Paese. Come se si potessero riproporre, in un contesto diverso, modelli che altrove funzionano da anni e sono pienamente coerenti con le diverse realtà organizzative e gestionali all'interno delle quali si sono sviluppati, senza prendere in considerazione il contesto generale e l'insieme delle norme nel quale andranno ad inserirsi, e senza ragionare prima su come rendere quei modelli funzionali al nuovo contesto di riferimento.

Questo modo di procedere non è nuovo per i politici italiani, ma evidentemente continuiamo a non trarre insegnamenti dal passato e dall'esperienza. Pasquale Villari, già nel 1872, scriveva: “Non bisogna guardare alla luna; non bisogna ragionare come se fossimo diversi da quel che siamo; non bisogna ogni notte sognare la Germania come una volta si sognava la Francia. Bisogna innanzitutto studiare l'Italia. Un meccanismo, trasferito da un Paese all'altro, non porta necessariamente dappertutto i medesimi risultati”. La riflessione di Villari era riferita al mondo della scuola e dell'Università. Ma resta oggi molto attuale anche quando si ragiona sulla possibilità di importare in Italia, in maniera acritica, i modelli di politiche culturali degli altri Paesi europei.

L'impegno riformatore della classe dirigente italiana si è fermato spesso solo a questa riproposizione non ragionata del modello americano. E il risultato è stato che quello che altrove funziona perfettamente, riproposto nel nostro Paese senza i dovuti aggiustamenti legislativi e di contesto, non ha funzionato come qualcuno avrebbe sperato. I modelli degli altri Paesi vanno studiati a fondo prima di ipotizzare di riadattarli anche in situazioni lontane e diverse, vanno ripensati rispetto a realtà spesso profondamente differenti e soprattutto vanno resi coerenti con il contesto al quale devono adattarsi. È vero che i musei americani vivono senza dipendere unicamente dai finanziamenti pubblici. È vero che i musei americani sono, quasi tutti, interamente privati. Ma è anche vero che in quel Paese vige un regime di regole per il privato che investe in cultura completamente diverso dal nostro, un sistema di norme che ha creato nel tempo le condizioni giuste perché il privato, impresa o persona fisica, abbia molte ragioni e convenienze per investire il proprio denaro in un museo o in un'altra istituzione culturale.

È giusto, dunque, ragionare sulla concreta possibilità che anche i nostri musei (i nostri teatri, le nostre istituzioni culturali) possano progressivamente sganciarsi dalla situazione attuale di pressoché totale dipendenza dalle risorse pubbliche: è successo in America, potrà succedere anche da noi. Ma è ingenuo pretendere che questo accada solo perché, come è stato fatto in Italia, si stabilisce per legge che il privato debba investire in cultura o che chi gestisce le istituzioni culturali abbia l'obbligo di reperire risorse private. Fin quando non si saranno realizzate quelle condizioni di vantaggio e di convenienza che altrove hanno reso interessante per il privato intervenire con proprie risorse nella gestione delle istituzioni culturali non sarà ipotizzabile che quel sistema possa funzionare davvero anche da noi.

Fermiamoci ancora al sistema americano. L'attività del Getty Museum, racconta Salvatore Settis, non genera profitti ma perdite; esattamente come l'attività di qualunque museo italiano. È una vecchia legge dell'economia della cultura che vale in tutto il mondo: anche il Getty non sopravviverebbe se dovesse contare solo sulle entrate proprie da biglietteria, da ristorazione o da merchandising. La differenza fondamentale è che, in America, al netto degli incentivi fiscali sulle somme investite in cultura, gli azionisti privati del Getty rendono disponibile una parte degli utili derivati dall'investimento in borsa del patrimonio iniziale per ripianare le perdite di gestione e per le nuove acquisizioni. Garantiscono, così, l'equilibrio tra costi e ricavi, e quindi la sostenibilità economica dell'istituzione; e promuovono politiche di sviluppo e di crescita del museo. La parte rimanente (che poi è la più consistente) sono liberi di investirla secondo le regole del mercato. I privati, restano, insomma, titolari dell'investimento fatto: sia perché lo gestiscono sedendo nel Board of Trustees, sia in quanto beneficiari non solo degli incentivi fiscali legati alla devoluzione di danaro per finalità culturali ma anche degli utili delle somme investite. Il risultato è che il Getty (pur non generando profitti ma perdite) è in una condizione di sano equilibrio economico e porta avanti una politica di sviluppo attraverso nuove acquisizioni e investimenti sulla logistica e sulla didattica; mentre i privati benefattori, oltre ad essere inseriti in una lista di benemeriti “amici del museo”, continuano a investire in borsa il loro denaro secondo le regole del libero mercato e della finanza.

Le leggi che regolano le caratteristiche dell'ambiente economico nel settore della cultura sono dunque uguali in tutto il mondo e il museo resta un'azienda che non può reggersi sul mercato e che ha “talmente tanti settori improduttivi che può – forse – raggiungere la parità di bilancio solo se abdica alle sue funzioni culturali fondamentali, se taglia le attività improduttive – studio scientifico, comunicazione culturale – avvicinandosi sempre più a un qualcosa che sta tra il centro commerciale e il Luna Park”.

A partire da questa condizione di base comune a tutto il mondo, che di fatto smentisce le tesi di alcuni economisti italiani che hanno spesso contestato il principio stesso della necessità ineludibile del sostegno pubblico alle istituzioni culturali, la differenza tra quello che accade in America e quello che accade in Italia è enorme. A parte la parzialità e l'incompletezza del regime di agevolazioni fiscali che è già di per sé assai poco incentivante, nel migliore dei casi il privato viene inserito in un elenco di “amici” del museo o del teatro; in qualche caso (ma spesso solo a fronte di ingenti investimenti o in cordata con altri) gli viene garantito un posto in un Consiglio di Amministrazione. In nessun caso, invece, riesce ad avere significativi vantaggi fiscali né un ruolo reale e rilevante nella gestione delle risorse o nella definizione delle politiche culturali e delle strategie gestionali dell'Istituzione. Come si vede, dunque, il problema non è solo quello di garantire al privato un regime adeguato di incentivi fiscali, come si sente troppo spesso dire in Italia, ma di modificare profondamente l'insieme delle norme che, nel nostro Paese, regolano il rapporto tra pubblico e privato nel campo della cultura. Fin quando questo non sarà fatto, inseguire il sogno di una reale privatizzazione delle nostre istituzioni culturali e, dunque, di un affrancamento di esse dall'alveo esclusivo della finanza pubblica, rappresenta un'utopia difficilmente realizzabile che potrà solo accrescere la dimensione di incertezza nella quale da troppo tempo è costretto ad operare il sistema italiano dei beni e delle istituzioni culturali, una delle grandi ricchezze su cui le politiche pubbliche avrebbero dovuto puntare con convinzione.

È su questa ambiguità di fondo che ha trovato le sue basi la tradizionale diffidenza del privato nei confronti delle istituzioni culturali pubbliche in Italia. Si è preteso un investimento davvero a fondo perduto, si è preteso che i privati assicurassero un apporto in termini di risorse senza garantire loro nulla in termini di veri incentivi fiscali o di ritorno sull'utilizzo del patrimonio investito, se non quel ritorno d'immagine che oggi, con la crisi che attanaglia enti e istituzioni culturali italiani, tra scioperi, buchi di bilancio e scarsa produttività, sembra sempre di più una di quelle frasi fatte, buone da ripetere tutte le volte che si discute della crisi che attanaglia il settore ma priva di un concreto significato. Ma c'è di più: si è preteso che il privato investisse in cultura proprio nel momento in cui lo Stato manifestava un progressivo, evidente, disimpegno nei confronti del settore. Con il risultato che quell'intervento, che in origine avrebbe dovuto essere aggiuntivo rispetto a quello pubblico, in breve tempo è diventato sostitutivo. Il privato, allora, laddove si è impegnato, l'ha fatto solo perché ha trovato un tornaconto di altro tipo. In qualche caso è stato il potere politico a chiedere espressamente al privato di intervenire e questi l'ha fatto perché ha visto quell'investimento come una sorta di potenziale contropartita per il conseguimento di altri obiettivi, di carattere assai diverso dallo sviluppo culturale del territorio, ma coerenti con le finalità aziendali. In altri casi, si è trattato di privati in qualche modo “anomali”, come le società partecipate da regioni e comuni o, addirittura, nel caso delle Fondazioni lirico-sinfoniche, le province, che è davvero ardito inserire tra i partner privati.

Una parte del problema nasce proprio da qui. Prendiamo l'esempio dei grandi teatri d'opera italiani, gli ex enti lirici che, nella metà degli anni Novanta del secolo scorso, furono trasformati dal legislatore da enti pubblici in fondazioni di diritto privato. La prima grande privatizzazione nel campo della cultura che il nostro Paese abbia sperimentato; il primo tentativo di aziendalizzazione della cultura; la prima volta di un modello formalizzato di incontro tra pubblico e privato nel campo delle arti e dello spettacolo. La riforma partiva da alcuni assunti di base.

Primo: le risorse pubbliche in Italia sono progressivamente decrescenti e sono ormai insufficienti a rendere sostenibile il sistema.

Secondo: negli altri paesi del mondo i teatri e le grandi istituzioni culturali vivono non solo grazie a fondi pubblici ma anche grazie a risorse private.

Terzo: anche in Italia va incentivato un modello che favorisca il reperimento di fondi privati da aggiungere a quelli pubblici, in modo da ridurre la spesa pubblica per lo spettacolo dal vivo, senza danneggiare e contrarre la capacità produttiva del sistema. E poiché i grandi teatri d'opera assorbono la maggior parte dei finanziamenti pubblici destinati allo spettacolo dal vivo, sembrava giusto e opportuno che fosse il caso di cominciare proprio da questi per immaginare un nuovo modello di governance e di sostenibilità.

Quarto: è tempo, ed è giusto, cominciare ad introdurre anche nei nostri grandi teatri, che rappresentano i pilastri del sistema dello spettacolo italiano, quei principi di economicità e controllo della gestione, che possono essere meglio garantiti proprio nel quadro di una efficace partnership con il mondo dell'impresa.

Non è il caso di entrare qui nel merito di una riforma nata, come si vede, su presupposti quasi esclusivamente legati alla sostenibilità economico-finanziaria dei nostri grandi teatri d'opera e dunque gravata in partenza da un errore di fondo: quello di ipotizzare una riforma di quel sistema partendo dal problema delle risorse, piuttosto che dalla mission e dal ruolo sociale dei nostri teatri, dalla necessità di dare impulso a capacità produttive e a performance molto arretrate rispetto agli standard europei, dalla volontà di trasformare i nostri teatri da templi paludati e chiusi di un sapere lontano dalla gente in grandi luoghi di incontro della collettività, aperti e accoglienti come accade nel resto del mondo. Il ragionamento ci porterebbe troppo lontano e in parte esulerebbe dalle ragioni di questo lavoro. Il problema è che quel tentativo, a più di dieci anni dalla riforma voluta da Walter Veltroni, è fallito. Semplicemente perché non si è sciolto il nodo di fondo che ha creato le condizioni di ambiguità per cui il privato non ha trovato interesse reale e convenienza nell'investire nelle quattordici Fondazioni liriche italiane che, con pochissime eccezioni, si trovano ancora oggi a inseguire un privato che quando interviene lo fa senza alcuna convinzione, senza prospettive di ritorno e solo perché, in qualche modo, costretto dal contesto di riferimento, sociale e politico, nel quale opera.

Una delle ragioni di questo libro è, dunque, quella di fornire uno strumento di conoscenza di modelli differenti dal nostro, modelli che pur avendo subito negli anni molte trasformazioni hanno dimostrato nei diversi contesti di funzionare. Attraverso la conoscenza approfondita di quei modelli, l'obiettivo è quello di stimolare una riflessione e un ragionamento concreto sui cambiamenti e le innovazioni che si possono proporre per il sistema italiano al fine di renderlo più produttivo, più sostenibile, più efficiente, lasciandosi alle spalle la gravissima crisi nella quale tutto il mondo della cultura, e quello dello spettacolo dal vivo in particolare, versa ormai da troppo tempo.

Proprio per questo, si è deciso di mantenere l'analisi delle caratteristiche del sistema italiano ad un livello di riflessione generale sulle principali criticità e sui maggiori punti di forza, senza entrare nel dettaglio di uno studio analitico del sistema, anche in considerazione della grande mole di saggi e di pubblicazioni che, anche in anni recenti, ne hanno studiato a fondo le caratteristiche, sia sul piano normativo che sul piano della assegnazione e distribuzione delle risorse. Si è preferito, dunque, privilegiare una riflessione di carattere generale sulle politiche culturali nel nostro Paese, concentrando l'attenzione sullo studio analitico dei modelli degli altri Paesi presentati in questo lavoro. Sarebbe stato poco utile ripetere quello che già altri, con precisione e rigore analitico, hanno proposto in letteratura, rimandando alla lettura dei testi consigliati in bibliografia un eventuale approfondimento dell'analisi dei meccanismi attraverso i quali opera il sistema italiano.

Si è scelto di circoscrivere l'analisi più puntuale e dettagliata a tre Paesi, in qualche modo emblematici di modi diversi di impostare le politiche culturali: la Francia, il Regno Unito e la Germania. Nonostante la crisi dell'economia globale abbia per certi versi ridotto le distanze che prima rendevano profondamente diversi i modelli in esame, si rivela sempre molto utile l'analisi dell'impostazione delle politiche culturali nei tre Paesi individuati che restano comunque caratterizzati da alcune differenze che stanno alla base della nostra scelta.

Il primo elemento distintivo sta nella impostazione di fondo che segna una sostanziale diversità tra le tre realtà esaminate: la tendenza ad accentrare scelte e decisioni sul livello dello Stato da parte della Francia, la scelta del decentramento istituzionale, storicamente alla base delle politiche culturali della Germania e, infine, il modello indiretto, mediato, che ha da sempre segnato fortemente l'impostazione dei Paesi del mondo anglosassone in cui agenzie dotate di una certa autonomia e indipendenza rispetto alla politica permettono di frapporre quella che è stata definita la distanza del braccio (arm's length) tra chi ha la responsabilità di Governo e chi si occupa della individuazione dei beneficiari degli stanziamenti in favore del settore.

Il secondo elemento è legato al coinvolgimento dei privati nel sostegno alle politiche culturali e ha nel modello anglosassone il suo riferimento privilegiato. L'Italia si pone, con troppe ambiguità e con poca convinzione, in una posizione ibrida, espressione di un tentativo di cambiamento in corso. L'impostazione di fondo resta quella diretta, centrale, statalista (sul modello francese). Su questa si è innestato un iniziale processo di coinvolgimento del mondo dell'impresa e del privato (alla maniera dei Paesi di cultura anglosassone) e, più di recente, un iniziale processo di potenziale decentralizzazione delle politiche culturali all'interno del dibattito in corso su una possibile trasformazione in senso federale dello Stato. Questo cambiamento è, al momento, incompiuto. Troppo spesso, come si è detto, la sensazione che si ha osservando la vicenda italiana è quella di un tentativo quasi obbligato, legato più al tema dell'esiguità delle risorse pubbliche che a una vera, profonda e sentita esigenza di riformare il sistema. Proprio per questo è utile studiare e cercare di capire i modelli degli altri Paesi, per valutare fino a che punto essi sono applicabili alla situazione italiana e quali insegnamenti possiamo trarre dalle esperienze positive altrove consolidate.

I capitoli dedicati ai Paesi oggetto dello studio sono stati sottoposti alla valutazione e al referaggio di operatori e studiosi attivi nei rispettivi Paesi che in questa sede ringraziamo per il tempo dedicato, per i suggerimenti proposti e per l'immediata adesione alle ragioni di questo lavoro. Per la Francia, Marco Consolini, Maître de Conférences presso l'Institut d'Etudes Théâtrales de l'Université de la Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Per il Regno Unito, Catherine Smith, scenografo associato, e Ruth Jarrat, direttore di sviluppo, della Royal Opera House Covent Garden di Londra. Per la Germania, Paolo Carignani, direttore d'orchestra e Generalmusikdirektor del Teatro dell'Opera di Francoforte dal 1999 al 2008. Per l'Italia e per il capitolo delle Conclusioni, infine, Michele Trimarchi, economista, professore ordinario di Analisi Economica presso l'Università degli Studi di Catanzaro e docente di Cultural Economics presso l'Università degli Studi di Bologna. Infine, va segnalato che a margine di ciascun capitolo viene proposto un approfondimento destinato a fornire ulteriori elementi di conoscenza e di specificità rispetto alla realtà analizzata. Nel caso della Francia l'approfondimento è centrato sul Théatre du Châtelet di Parigi, attraverso un'intervista a Jean-François Brégy, Secrétaire General, e Thomas Lauriot dit Prévost, Directeur Administratif et Financier. Nel caso del Regno Unito, si è voluto approfondire il caso del Festival di Edinburgo con una intervista al Direttore del Festival, Jonathan Mills. Il capitolo dedicato alla Germania si conclude, invece, con una approfondita analisi della Fondazione lirica di Berlino, caso piuttosto unico di unificazione di tre teatri prima separati.

Devo un pensiero di gratitudine ai tanti che mi hanno aiutato a vario titolo nella stesura di questo lavoro. Salvo Nastasi, Direttore generale dello Spettacolo dal vivo del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, e i suoi Uffici (a cominciare da Enrico Graziano) per la piena disponibilità e per la collaborazione fornitami per ricostruire il quadro complessivo dell'intervento del Governo Italiano negli anni, operazione per alcuni versi assai complessa; senza il loro contributo tutto sarebbe stato molto difficile. Roberto Grossi, Presidente di Federculture, per avermi permesso di consultare in anticipo alcuni dati dell'ultimo Rapporto. Poi, ancora, Annalena Aranguren, Alessandro Di Gloria, Moreno Bucci e Francesco Pignataro. A Carmelo Guarino questo libro deve molta cura e tanta pazienza nel lavoro di revisione; io gli devo l'esortazione più convincente a completarlo e a pubblicarlo. Anche per questo, è a lui che questo libro è dedicato.

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