Ruolo della dirigenza e verticalizzazione dei poteri. Atti del seminario
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Ruolo della dirigenza e verticalizzazione dei poteri

Atti del seminario

Mauro Marcantoni

Quarta di copertina

Il ruolo della dirigenza e la sua insostituibile funzione di cerniera tra gli indirizzi politichi e le risposte burocratiche organizzative vanno fortemente sostenuti anche attraverso opportune occasioni di formazione di confronto.

Questo ha dato vita ad un piano di interventi, messo in atto da tsm-Trentino School of Management, su indicazione del dipartimento Organizzazione, Personale e Affari generali della Provincia autonoma di Trento, che presenta due caratteristiche coessenziali: le riflessioni degli esperti da un lato e l'opinione degli stessi protagonisti dall'atro. Caratteristiche che hanno determinato l'impostazione della prima giornata di formazione per la dirigenza del maggio 2008 con l'intervento di Giuseppe De Rita su un tema certamente stimolante, Ruolo della dirigenza e verticalizzazione dei poteri , e con la presentazione degli esiti di tre ricerche, contenute nella pubblicazione “Il dirigente pubblico come agente di innovazione, da parte di Nadio Delai e di Mauro Marcantoni. Il tutto preceduto da una riflessione del Presidente Lorenzo Dellai volta a inquadrare le linee portanti delle politiche per la dirigenza messe in campo dalla Giunta provinciale e a definire gli strumenti più idonei per migliorare gli apparati burocratici, la loro produttività e la loro capacità di soddisfare le esigenze dei cittadini utenti.

Gli atti che qui proponiamo costituiscono, quindi, un utile completamento delle relazioni e delle discussioni che hanno caratterizzato la giornata e danno l'opportunità di riprendere alcuni temi cardine del processo di ammodernamento della Provincia autonoma di Trento e dei suoi Enti collegati.

Contributi:De Rita Giuseppe.

Parte prima. Apertura dei lavori, Mauro Marcantoni

Lo sviluppo della pubblica amministrazione ed il ruolo della dirigenza, Lorenzo Dellai

La funzione dirigenziale nella Provincia autonoma di Trento: i risultati di tre ricerche, Mauro Marcantoni

Ruolo della dirigenza e verticalizzazione dei poteri, Giuseppe De Rita

L'autopercezione del ruolo dei dirigenti nella Provincia autonoma di Trento, Nadio Delai

 

Parte seconda. Approfondimenti di Gruppo

Gruppo I, Gianfranco Cerea

Gruppo II, Antonio Scaglia

Gruppo III, Daria de Pretis

Gruppo IV, Ugo Morelli

 

Parte terza

Conclusioni

Nadio Delai

Mauro Marcantoni

 

Allegato

Programma dell'incontro

Introduzione

di Giuseppe De Rita

Comincerò da alcune riflessioni sull'autocoscienza della classe dirigente della Provincia. Gli esercizi di autocoscienza sono a volte dei sociodrammi. Per questo è bene chiarire che la struttura burocratica, a differenza di una qualsiasi azienda o di un qualsiasi ministero, non ha bisogno di psicodrammi, ma di lucidità nella sua collocazione all'interno della struttura stessa. È tradizione concepire la dirigenza amministrativa come quella parte che fa da saldatura tra gli scopi politici e gli scopi aziendali, gli scopi di profitto di un'azienda o di un'amministrazione da una parte e il resto dei dipendenti dall'altra.

Alain Touraine diceva che in un'azienda la logica del proprietario, o dell'azionista, è ottimizzare il profitto. Il proprietario ha una sua cultura del profitto, dell'arricchimento, del corso borsistico che non lo rende responsabile dell'azienda. È attento agli effetti finanziari, ma non alla gestione. A livello più basso, continuava Touraine, ci sono gli operai e gli impiegati che hanno il problema di guadagnare lo stipendio, di avere un miglioramento delle condizioni o dei tempi di lavoro, ma che non hanno un'identificazione con l'azienda. Possono andare ovunque, così come il proprietario può vendere l'azienda in qualsiasi momento. Chi si identifica con l'azienda è la fascia intermedia, la dirigenza, che rappresenta il punto di snodo tra l'alto e il basso e che interpreta la dimensione istituzionale dell'organizzazione. I soggetti istituzionali di un'azienda, di un ministero o di una struttura amministrativa non sono i vertici, non sono le truppe di base, ma i dirigenti.

Questa intuizione di Touraine, di ormai quarant'anni fa, è sempre valida? La fascia intermedia di dirigenti “sposati” con l'istituzione è cambiata? L'impressione è che la dimensione della dirigenza abbia subìto

un cedimento rispetto a quella prestigiosa figura del dirigente che si identificava con il fine istituzionale  dell'impresa o dell'amministrazione, che era colui che restava, al di là delle vicende del vertice e degli interessi più o meno sindacalizzati della base. Sempre più si è cercato di equiparare la dimensione della dirigenza ad un lavoro dipendente qualsiasi. La stessa sindacalizzazione, prima dei quadri, poi dei dirigenti, ha creato una sorta di burocratizzazione del ruolo e non di specificità all'interno dell'amministrazione o dell'azienda. D'altra parte, bisogna dire che gli stessi dirigenti hanno spesso subìto la tentazione di “scendere di livello”, non soltanto perché incalzati dai loro dipendenti, ma perché hanno finito col non assumere una dimensione di responsabilità. Essendo anch'essi dipendenti perché avrebbero dovuto avere una responsabilità istituzionale, quando poi le questioni principali vengono decise attraverso dei bypass tra sindacati dei dipendenti e padrone, tra sindacato degli impiegati d'ordine e vertici politici? Anche i dirigenti, quindi, sono entrati in una cultura impiegatizia. Abbiamo visto questa fuga da un ruolo istituzionale un po' ovunque, dalla magistratura all'insegnamento.

La crisi della managerialità, della dimensione dirigenziale, viene dal basso, dalla stessa dirigenza intermedia e soprattutto da una tendenza alla verticalizzazione del potere. La verticalizzazione non lascia spazio per la dirigenza. C'è spazio per la lealtà al capo, per la validità tecnica degli assistenti e dei collaboratori diretti, per le competenze specialistiche. D'altro canto il capo azienda, così come il ministro, verticalizza il potere non tanto per gusto proprio ma per ragioni di funzionalità. Ed infatti è proprio l'esigenza di presidio e di reazione in tempo reale a portare alla verticalizzazione. Una verticalizzazione che ha via via disanimato la dirigenza.

Quando da giovane scrivevo parti di piani di programma, c'era sempre una funzione nuova da attivare e allora si proponeva di creare un'agenzia. Nei ministeri si arrabbiavano e di solito l'agenzia non veniva istituita perché rappresentava una sottrazione di poteri. In realtà la vera sottrazione di poteri avveniva dall'interno, era la verticalizzazione.

Lo stesso è accaduto nel mondo dell'impresa dove la verticalizzazione inizia negli anni Ottanta con il “romitismo”, che distrugge in Fiat l'articolazione gerarchica creata da Valletta. Una verticalizzazione che ha superato se stessa, perché il capo azienda non solo diventa l'unico vero potere, ma diventa colui che gestisce, usa e qualche volta strumentalizza il ciclo della strategia. Il ciclo strategico, quando Romiti fu chiamato come l'Amministratore Delegato, era sconfiggere il terrorismo ed il sindacalismo rosso: i sessanta giorni di sciopero, i picchetti al Lingotto e a Mirafiori. Marchionne ha trovato una situazione per cui doveva prima di tutto risistemare la finanza del gruppo e questo ha costituito il suo ciclo strategico. Oggi, contrariamente alla pubblica amministrazione, le aziende vivono di passaggi strategici periodici controllati dal capo che le affronta spingendo sulla verticalizzazione. Si pensi al caso di Luxottica oppure di Unicredit. La verticalizzazione fa sì che i gestori dei passaggi strategici siano i veri padroni. Non c'è più la struttura disegnata, l'organigramma, ma vi è una continua destrutturazione della dimensione aziendale. Ogni passaggio strategico comporta un suo assetto interno che modifica continuamente la struttura organizzativa.

Questa riduzione della managerialità tocca anche la realtà amministrativa perché la verticalizzazione comunque esiste nella dimensione politica. La politica poteva negli scorsi anni fare verticalizzazione perché aveva una strategia, una ragione giustificativa. Una ragione giustificativa, a volte ideologica, a volte programmatica. La verticalizzazione politica assomigliava quindi a quella aziendale. Oggi nella politica comincia a mancare la ragione giustificativa. Nella politica vengono meno i disegni generali, non ci sono più linee alle quali ispirare la verticalizzazione del proprio potere.

Remo Bodei, parlando di laicismo, sostiene che non deve stupire il ritorno alla religione, addirittura alla parte più fondamentalista, perché se manca la ragione giustificativa di creare un mondo nuovo allora ci affidiamo alla Provvidenza divina. Quindi non è in crisi solo l'amministrazione a causa della verticalizzazione del potere ma anche la politica, che in qualche misura non ha più ragioni per comandare, se non quelle puramente gerarchiche. La politica dovrebbe ritrovare una ragione giustificativa.

C'è nella società italiana, accanto alla verticalizzazione del potere, una sorta di dimenticanza della cultura processuale: il processo non ci interessa. La processualità delle informazioni e delle ipotesi non ci interessa. Siamo per l'identità e non per l'altro, che mi crea problemi processuali, mentre l'identità crea il solo problema di mettermi davanti allo specchio. Non c'è processualità nell'identità, così come non c'è processualità nel localismo se non è globalizzazione, se non è internazionalizzazione. Non c'è processualità nel qui ed ora, nel presente, rispetto alla profondità temporale della storia. La memoria è dannata, il futuro non interessa a nessuno.

Anche nella dimensione religiosa c'è un rifiuto della realtà processuale. Il problema odierno è tenere aperta ovunque una cultura del processo, della dinamica di ciascuno, religiosa, amministrativa, aziendale. In azienda è essenziale l'espressione start up perché è il momento in cui il processo crea il nuovo oppure il nuovo crea ulteriori processi. Un'azienda non può vivere senza start up, perché altrimenti è nel continuismo. Forse potrebbe andare bene per un'amministrazione, ma anche questa resterebbe completamente fuori dai processi sociali e sarebbe, come ha detto Lorenzo Dellai, autoreferenziale in tutto: dal modo in cui si pensa al modo in cui si autovaluta.

Il vero problema del discorso sulla valutazione è la processualità e non i problemi tecnici. Se provo a dare anima ad un'amministrazione, devo dire qual è l'asse portante su cui muovo l'amministrazione, l'azienda. Capisco che Dellai non può fare tre o quattro start up ogni cinque anni, cioè individuare in modo continuo la ragione giustificatrice e l'obiettivo coinvolgente della politica. Non può farlo perché dirige un'amministrazione che ha nella sua stessa cultura la continuità, la terzietà, la fedeltà, la trasparenza. Il periodo più facile è stato quello in cui è stata creata l'Autonomia perché c'era la ragione giustificatrice, appunto fare l'Autonomia. Lì dove c'è una ragione giustificativa, un obiettivo, allora si trova l'unione tra apice ed amministrazione e dirigenza. Lì dove non c'è, la tendenza è alla separazione. Separazione non significa altro che un tentativo o una tentazione di verticalizzazione del potere politico e delle funzioni amministrative.

La popolazione trentina è fortunata ad avere un'amministrazione ed una politica che hanno mantenuto abbastanza separate queste due responsabilità, che non hanno verticalizzato. Ma se andate in Sicilia o in Calabria, trovate il sindaco che fa tutto. L'amministrazione non esiste là dove la verticalizzazione è stata rapida, brutale e senza ragioni giustificative, se non di potere, di accentramento del potere a fini di consenso. È ciò che viene chiamato oggi il “cuffarismo”: una forma di assunzione di potere senza ragione giustificativa. Bossi dirà che la Lega ha la ragione giustificativa di fare la secessione ma anche quello è accentramento del potere a fini di consenso. Poi il consenso lo si spende nella maggioranza, nel governo. È stato detto che il consenso si prende sul territorio parlando veneto, ma poi lo si deve spendere a Roma o a Londra parlando italiano o inglese. E anche il leghismo non sfugge a questo meccanismo.

Concludendo, la verticalizzazione del potere, specialmente nell'amministrazione pubblica, è sempre più senza ragione giustificativa. Non c'è più un disegno ma solo la verticalizzazione a fini di consenso. Questo è il problema principale: bisogna evitare di cadere nel trabocchetto della verticalizzazione a puri fini di consenso.

Sono processi che viviamo quasi inconsciamente e che invece stanno dentro una chimica del corpo sociale italiano, che probabilmente deriva anche da una insufficienza del corpo stesso che tende a spostare verso l'alto la responsabilità. Se un politico cede alla tentazione di fare verticalizzazione senza ragione fondatrice, senza pagamento di responsabilità, per l'amministrazione è un danno.

Queste mie riflessioni non sono del tutto ottimistiche. Parliamo tanto di cultura della responsabilità, di etica dell'amministratore, del burocrate, del dirigente, ma non riusciamo a capire che la responsabilità non è un'opzione morale. La responsabilità deriva da una ragione fondativa del proprio lavoro e da un'articolazione dei poteri che non permette verticalizzazione.

Il ministro Renato Brunetta, che è uomo intelligente e di grande volontà, può creare un po' di paura, ma se la macchina resta senza ragione fondativa e senza articolazione vera delle responsabilità, potrebbe essere destinata, nei prossimi anni, ad un'ulteriore verticalizzazione della politica pur avendo licenziato mille o duemila fannulloni.

Il problema non è nella valutazione del comportamento ma nel comprendere che la motivazione del comportamento non è soltanto moralistica accettazione del dovere. La motivazione del comportamento deve essere una responsabilità intima, propria, forte, perché ci si sente portatori di una precisa ragione giustificativa a cui fa riferimento una squadra capace di assumersi responsabilità.

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