SÜDTIROL
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SÜDTIROL

Storia di una guerra rimossa (1956-1967)

Giorgio Postal Mauro Marcantoni

Quarta di copertina

Una pagina rimossa della recente storia nazionale, spesso segnata da equivoci e letture riduttive: quella del terrorismo sudtirolese, che interessò per oltre dieci anni (dal 1956 al 1967) un'area ben più vasta della regione Trentino Alto Adige, dove ebbe il suo epicentro. I semplici numeri – oltre 300 attentati e almeno una decina di stragi evitate in modo fortuito – dimostrano che non fu un fenomeno circoscritto, riconducibile a un esiguo gruppo di nostalgici: seguendo la pressante cronologia dei fatti, il libro racconta il complesso intreccio di ragioni e di contro ragioni che hanno provocato, e alla fine risolto, una drammatica sequenza di esplosioni e di aggressioni che sembrava non aver mai fine.

Un intreccio che ha via via visto schierati la politica, l'esercito, i servizi segreti, le diplomazie d'Italia e Austria, e soprattutto i protagonisti locali, sudtirolesi, trentini e altoatesini. Per mettere un po' di ordine e di chiarezza in una vicenda tanto complessa e sbrigativamente rimossa dalla memoria collettiva, il volume ricostruisce la genesi del fenomeno terroristico: dalla fase iniziale, spontaneistica e autoctona, a quella organizzata dal Befreiungsausschuss Südtirol (Bas), il principale gruppo terroristico operante per la causa sudtirolese, fino alla fase conclusiva – che fu anche la più cruenta – d'ispirazione neonazista e pangermanista. La riconciliazione tra i gruppi etnici conviventi nella regione Trentino-Alto Adige/Südtirol fu il frutto della lunga e paziente ricerca di una soluzione politica condivisa, che richiese il superamento di posizioni nazionalistiche da un lato, e d'intransigenze ideologiche e localistiche dall'altro.

Le affascinanti pagine di questo libro mostrano come l'intera vicenda di questa stagione dimenticata possa oggi essere considerata un esempio virtuoso e attuale: è la storia di come sia stato possibile trasformare un tempo di guerra, – con centinaia e centinaia di attentati, con alberghi requisiti e trasformati in caserme, con il coprifuoco e la necessità di visti d'ingresso dall'Austria –, in un tempo di pacifica convivenza e di fattiva collaborazione tra appartenenze, culture e gruppi linguistici diversi.

Donzelli Editore Srl

Prefazione, di Giuseppe De Rita

 

Prologo. Cominciando dalla fine, o quasi

 

I. Sudtirolo: alle radici di un conflitto (rimosso)

1. La «questione altoatesina»

2. L'italianizzazione forzata

3. Un patto scellerato

4. Si torna «a casa». L'«Alpenvorland»

5. La questione del confine

6. Le «ragioni» italiane

7. L'accordo Degasperi-Gruber

8. Un'autonomia «regionale»

9. La Todesmarsch, «marcia verso la morte»

10. Tornano gli «optanti»

11. Due diverse concezioni dell'autonomia

12. Il «Bergisel Bund»

 

II. Los von Trient: «Via da Trento»

1. I primi attentati

2. Due cocenti delusioni

3. Il cambio ai vertici della Svp

4. Castel Firmiano

5. «Südtirol svegliati!»

6. «Il tempo delle cortesie è finito»

7. Celebrazioni hoferiane

8. La «Südtirolerfrage» all'Onu

9. Le bombe accompagnano i colloqui internazionali

10. La «Notte dei fuochi»

11. La militarizzazione dell'Alto Adige

12. L'Italia accusa l'Austria

13. La «grande retata»

14. Il terrorismo si riorganizza

 

III. «Non avremo riguardi». La deriva neonazista

1. La Commissione dei 19

2. Una seconda volta all'Onu

3. Il processo di Graz

4. Muta la strategia

5. La polemica sulle sevizie in carcere

6. L'attacco ai treni

7. Una Volkswagen imbottita di esplosivo

8. Quasi un bollettino di guerra

9. «Gli italiani ci hanno rubato la terra natia»

10. Il «Pacchetto»

11. Terrorismo «a orologeria»

12. Il caso Amplatz

13. Il «Pacchetto Saragat-Kreisky»

14. Il testamento di Amplatz

 

IV. Cima Vallona. Apice ed epilogo

del terrorismo sudtirolese

1. Sesto Pusteria

2. Passo Vizze

3. San Martino di Casies

4. Malga Sasso

5. «Il grilletto facile degli italiani»

6. I vertici di Innsbruck

7. Il processo di Linz

8. La strage di Cima Vallona

9. Il terrorismo viene debellato

 

Conclusioni. Dalla strategia delle bombe alla pacificazione etnica

di Giuseppe De Rita

Una lenta marcia della «politica del possibile» contro una breve stagione di follia omicida. Questa è l'impressione sintetica, forse anche troppo sintetica, con cui ho letto il puntuale impegno di Mauro Marcantoni e Giorgio Postal a ripercorrere gli eventi del terrorismo sudtirolese dalla metà degli anni cinquanta alla fine dei anni sessanta.

Ma il lettore attento noterà subito che la contrapposizione sintetica fra politica del possibile e follia omicida è troppo semplicistica e va quindi analizzata con profondità certosina, evento dopo evento. E dal racconto degli eventi risulta evidente che i due termini contrapposti hanno avuto anche una loro faticosa evoluzione interna. Da un lato la politica del possibile, della fedele mediazione continuata, era stata preceduta da fasi molto meno disponibili alla conciliazione (di nazionalizzazione e militarizzazione da parte italiana e di rivendicazione secessionista da parte tirolese); e i due vincitori finali (Moro per l'Italia e Magnago per la Svp) avevano fatto lunga fatica ad affermare la linea della trattativa. Dall'altro lato anche il secondo polo di contrapposizione (la breve stagione di follia omicida) aveva fatto un complesso percorso di evoluzione, dopo esser passato per una fase di pura rivendicazione identitaria (quella dal 1956 al 1961) con azioni terroristiche dirette a colpire solo infrastrutture ed edifici, senza mettere in calcolo l'attacco a vite umane, mentre dopo il '61 aveva finito per vivere una violenza volutamente omicida.

Basterebbe questo richiamo alla non lineare evoluzione delle due parti in giuoco nel terrorismo sudtirolese per far intendere che in esso si esprimevano identità collettive molto complesse, che non possono essere rimosse con facilità, come qualcuno sembra oggi credere, in virtù della «pacificazione» ottenuta a cavallo del 1970; e in cui si intrecciavano interessi (politici quanto economici) che sono destinati a condizionare, nel bene e nel male, anche la futura convivenza a sud del Brennero.

Non possiamo anzitutto relegare alla rimozione lo scontro di identità individuali e collettive che hanno infiammato i dodici anni del terrorismo (in più con qualche anno di preparazione e qualche altro di assestamento). Certo, dopo i processi ed i fenomeni altamente drammatici, la spinta immediata è quella di dimenticare, di pensare ad altro, di rimuovere. È successo anche in Italia rispetto al terrorismo politico degli anni settanta, presto dimenticato come fosse stato un incidente della storia. E forse ciò ha in parte aiutato alla rimozione del terrorismo sudtirolese da cui aveva ricevuto una sorta di testimone nella propensione a contestare tutto e tutti. Ma le radici dei due terrorismi erano sostanzialmente diverse, perché in Italia esse erano tutte culturali e sovrastrutturali (generazionali, anticapitalistiche, di sistema quasi) mentre in Sudtirolo le radici erano squisitamente etniche e territoriali, quindi più concrete e storicamente fondate. E non tragga in inganno che nelle loro fasi finali, quelle «omicide», i due terrorismi abbiano assunto caratteristiche di tipo ideologico (rivoluzionarie in Italia, pangermaniste e neonaziste a Bolzano e dintorni).Di fatto le radici erano diverse ed è sul loro carattere etnico e geografico che forse dovremmo ritornare a riflettere. Resta quindi sul tappeto l'esigenza di capire e approfondire, anche in prospettiva futura, quanto nelle vicende sudtirolesi abbia giuocato la dimensione identitaria. Il racconto degli autori chiarisce bene quanto complesso sia stato il disagio identitario attivato dal confine al Brennero stabilito dopo la prima guerra mondiale, poi esacerbato dal processo delle «opzioni», e poi ancora dal riemergere impetuoso della rivendicazione dell'autodeterminazione che scattò dopo la seconda guerra mondiale (rivendicazione appoggiata anche da alcune delle potenze vincitrici, prima fra tutte la Gran Bretagna). E ripercorrendo tale racconto viene da pensare che quel pieno di emozioni rivendicative sia stato in parte superato, pacificato nel disegno autonomistico che Moro e Magnago, con la loro politica del possibile, riuscirono a concordare, proporre e attuare. Resta però un'identità localistica (delle valli, dei paesi, delle città medie, del mondo contadino, del maso chiuso ecc.) che continua a vivere, in un orgoglio della tradizione che va oltre le dinamiche politiche degli ultimi decenni. Può darsi che tale identità localistica possa bastare a se stessa, senza in futuro assurgere a logiche di rinnovato separatismo regionale; ma va comunque tenuta sempre presente come una variabile fondamentale del futuro, sia esso di assestamento dell'esistente o di incubazione di nuove tensioni.

Nella razionalizzazione di questo futuro, la dimensione identitaria si incrocia con la dimensione degli interessi, economici o politici che siano. Io credo, leggendo in filigrana le pagine di Marcantoni e Postal (tutte impegnate a dare conto del terrorismo militante), che gli interessi economici abbiano avuto un ruolo non secondario nella «pacificazione», in quanto era nell'interesse del territorio e della gente comune mantenere un rapporto con l'Italia, vero e ricco mercato per il turismo di qualità. So bene che molti preferiscono esaltare il valore dell'identità rispetto al valore del mercato; ma nei fatti non si sfugge all'impressione che gli interessi economici abbiano avuto un ruolo fondamentale, ancorché silenzioso e sottotraccia, nel processo di pacificazione e nella conseguente tensione collettiva a gestire al meglio l'autonomia tutta speciale messa in funzione negli anni settanta.

E un ruolo ugualmente importante l'hanno esercitato anche gli interessi politici. Non c'è dubbio che nelle vicende fra il dopoguerra e gli anni settanta la politica ha avuto un peso determinante, in un giuoco di tensioni bilaterali fra Austria e Italia, ma più ancora in un giuoco di spregiudicate triangolazioni tra forze politiche locali e governo austriaco, fra componenti terroristiche e silenzioso appoggio delle autorità d'oltralpe, fra governi nazionali e poteri internazionali (l'Onu, la Corte di Giustizia, le sortite americane e britanniche, i veti italiani all'entrata dell'Austria nellaComunità europea ecc.).Alla fine sono sta- ti proprio questi rapporti internazionali che hanno imposto a tutti l'esigenza e la comune utilità di tenere conto degli interessi nel regolare la dialettica, spesso fiammeggiante, delle forze in campo. Nel lungo periodo vincono sempre gli interessi, politici o economici che siano, rispetto ai fuochi di breve periodo (magari anche di una sola «Notte dei fuochi»).

Mi si potrà dire che ripropongo, anche in quest'occasione, quella lettura di lunga durata che è tipica della cultura mia e del mio lavoro al Censis. Ma le società, specie quelle piccole, vivono di continuità nella lunga durata, anche se so che in molti scatta spesso la voglia di rompere tale continuità, con una fiammata rivoluzionaria (magari alimentata dalla violenza e confusa con la follia omicida). Ma per ottenere un tale fattore ci vuole una classe dirigente adeguata, in qualità e in strategia. E questa condizione non si è verificata nel terrorismo sudtirolese. Il successo fra Moro e Magnago non è stata solo la vittoria dei due grandi protagonisti, ma è stata anche la naturale espressione della continuità dei processi sociopolitici, non assolutamente scalfita dal debole protagonismo degli esponenti di vertice del terrorismo. Se penso alla molto relativa caratura politica di personaggi pur famosi come Burger, Klotz e Amplatz (basta rileggersi il cosiddetto testamento di quest'ultimo); se penso al peso che nelle vicende di quegli anni hanno avuto le «zone grigie in cui potevano muoversi mercenari prezzolati, avventurieri e apparati dello Stato operanti borderline»; se penso alla quasi nulla elaborazione strategica prodotta dai leader del terrorismo; se penso a tutto ciò devo dire che non c'era nel terrorismo sudtirolese la carica di soggettività medio-alta che serve per rompere il continuismo della società e la mediazione politica.

Queste due componenti – continuismo e mediazione politica – hanno chiuso con successo il periodo del terrorismo cui questo volume fa riferimento. Resta la domanda che gli autori si pongono e impongono a tutti noi: il problema è risolto o è soltanto rimosso? Per quel che vale il parere di un semplice ma coinvolto lettore, posso dire che lo vedo risolto, anche se so bene quanto siano permanenti le tensioni che in Europa si radicano nel permanere, difensivo e/o aggressivo, delle dialettiche identitarie.

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