Trentino e Sudtirolo l'autonomia della convivenza
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Trentino e Sudtirolo l'autonomia della convivenza

Giorgio Postal Mauro Marcantoni

Quarta di copertina

Veniamo, trentini e sudtirolesi, da una storia dove la questione della convivenza tra etnie e culture diverse, per secoli è stata centrale. Veniamo entrambi da immani tragedie: l'evacuazione e l'internamento per oltre 100.000 trentini durante la Grande Guerra, la lacerante scelta delle Opzioni per oltre 200.000 sudtirolesi durante il Fascismo. Veniamo dalle incomprensioni e dagli errori nell'applicazione del primo Statuto di autonomia (1948), con il seguito di violenza e di sangue del terrorismo. E veniamo infine dallo straordinario e proficuo incontro tra le nostre due culture autonomistiche, quello che ha prodotto il secondo Statuto. Ne è nata un'autonomia della convivenza del tutto peculiare, che merita di essere meglio conosciuta per avere la consapevolezza di cosa è stato fatto e di che cosa resta ancora da fare, per sapere da dove veniamo e per capire dove vogliamo andare.

Introduzione, di Paolo Pombeni

 

CAPITOLO I. Il Sudtirolo e il Trentino tra le due guerre

1. L'annessione al Regno d'Italia

2. Nasce la questione altoatesina

3. E poi venne il fascismo

4. L'italianizzazione forzata dell'Alto Adige

5. Il richiamo alla grande patria tedesca

6. L'iniziale rinuncia di Hitler al Sudtirolo

7. Le Opzioni: un patto scellerato

8. Finalmente il ritorno a casa: l'Alpenvorland

9. Anche il Trentino diventa «Grande Germania»

 

CAPITOLO II. L'accordo Degasperi-Gruber. Il primo Statuto di autonomia

1. La questione del confine nell'immediato secondo dopoguerra

2. Churchill: il Sudtirolo torni all'Austria

3. Le ragioni dell'Italia

4. L'accordo Degasperi-Gruber

5. Il dibattito sulle ipotesi di Statuto

Accordo intervenuto a Parigi il 5 settembre 1946 tra il Governo italiano e il Governo austriaco

6. 1948. La Costituente approva lo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige

Il primo Statuto di autonomia

 

CAPITOLO III. I primi passi dell'Autonomia regionale

1. La Todesmarsch

2. Tornano gli optanti

3. Il malessere cresce

4. Nasce il Bergisel Bund. L'Austria riapre la Questione sudtirolese

5. I primi attentati

6. Le elezioni regionali

 

CAPITOLO IV. Il Los von Trient.

1. Due delusioni cocenti per i sudtirolesi

2. Il cambio della guardia nella Südtiroler Volkspartei

3. Da Castel Firmiano il Los von Trient

4. Scende in campo il BAS: «Südtirol svegliati!»

 

CAPITOLO V. La SVP all'opposizione in Regione

1. «Il tempo delle cortesie è finito»

2. Nasce il «filo diretto» con Roma

3. La SVP all'opposizione in Regione

4. La Giunta Odorizzi in bilico

5. L'inadeguatezza dello Statuto

6. Cresce la tensione tra i gruppi etnici

Andreas Hofer. Il patriota e l'eroe sudtirolese

L'APPROFONDIMENTO

Le politiche regionali nel contesto economico

Il primo intervento regionale: infrastrutture e agricoltura

Il timido avvio della politica di industrializzazione

Il Trentino degli anni Cinquanta: un'area montana depressa

 

CAPITOLO VI. La Südtiroler Frage all'ONU

1. L'era Odorizzi all'epilogo

2. Il Piano Kessler

3. La Questione sudtirolese all'ONU

La risoluzione 1497/VI della XV Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla Questione altoatesina

4. Le elezioni regionali

5. Le bombe accompagnano i colloqui internazionali

6. Con Dalvit la tensione si stempera

 

CAPITOLO VII. 1961. L'anno della svolta

1. La «notte dei fuochi»

L'alleanza dei sudtirolesi con il Sacro Cuore

2. Obiettivo: l'autodecisione

3. Un'estate «calda »

4. L'Italia accusa l'Austria

5. La «piccola notte dei fuochi». La grande retata

Il terrorismo altoatesino. Una tragedia rimossa

6. Il terrorismo si riorganizza

 

CAPITOLO VIII. La Commissione dei 19

1. ll confronto diretto tra Stato e Minoranza

2. Duecento riunioni per il «Pacchetto»

3. Le prime questioni prese in esame

4. Una seconda volta all'ONU

5. Il processo di Graz

6. La polemica sulle sevizie in carcere

7. La seconda Giunta Dalvit

 

CAPITOLO IX. La Commissione dei 19: il nuovo ordinamento autonomistico

1. La SVP supera la pregiudiziale sulla Regione

2. Tornano i terroristi. Con il sangue

3. La Sottocommissione per l'ordinamento autonomistico. Una mini costituente

4. Le elezioni politiche dell'aprile 1963

5. Un bollettino di guerra

6. Il governo Moro

 

CAPITOLO X. Il «Pacchetto» della Commissione dei 19

1. La Relazione finale

2. Il ruolo decisivo della Commissione dei 19

3. Il vertice di Ginevra e l'istituzione di una Commissione mista

4. I neonazisti all'attacco

5. Il caso Amplatz

6. La Chiesa modifica i confini delle Diocesi. Le elezioni regionali

 

CAPITOLO XI. Lo stallo nelle trattative internazionali

1. La SVP rifiuta il «Pacchetto Saragat-Kreisky»

2. Il testamento di Amplatz

3. I «Quattro bravi ragazzi della Valle Aurina»: Sesto Pusteria

4. Moro alla Camera

 

CAPITOLO XII. Gli anni neri del terrorismo

1. Passo Vizze

2. Gli incontri di Londra

3. San Martino di Casies: ancora i «Quattro bravi ragazzi della Valle Aurina»

4. La tragedia di Malga Sasso

5. Moro afferma il principio della pariteticità tra Trento e Bolzano

6. Magnago e Moro, un incontro decisivo

 

CAPITOLO XIII. 1967: l'anno di Cima Vallona

1. I vertici di Innsbruck

2. Il processo di Linz

3. La strage di Cima Vallona e il veto italiano sull'ingresso dell'Austria nelle Comunità europee

5. Moro motiva alla Camera il veto posto dall'Italia

6. Gli ultimi attentati

7. Cresce la fiducia

8. Il «Calendario operativo»

 

CAPITOLO XIV. 1969: l'anno del Pacchetto

1. SVP: la dura opposizione interna a Magnago

2. Il Congresso straordinario della Volkspartei

3. Una svolta storica

4. Il confronto diretto tra Stato e Minoranza: un metodo essenziale

5. La questione degli italiani di Bolzano

6. Nel Pacchetto la soluzione della «Questione trentina»

L'APPROFONDIMENTO

Gli anni Sessanta, anni decisivi per il Trentino

Il Piano urbanistico provinciale

La modernizzazione

L'Università di Trento

 

CAPITOLO XV. Verso il Secondo Statuto

1. La prima attuazione del Calendario operativo

2. La Volkspartei in Giunta regionale

3. L'approvazione del secondo Statuto

L'APPROFONDIMENTO

Il secondo Statuto di autonomia

Le potestà legislative delle Province e della Regione

 

CAPITOLO XVI. La Seconda Autonomia

1. Trentino. Un'autonomia da rifondare

2. Sudtirolo: la lunga marcia continua

3. La centralità delle norme di attuazione

4. Le norme di attuazione dello Statuto dal 1972 al 1988

5. In Sudtirolo: bilinguismo e proporzionale, due principi controversi

6. Il malessere del gruppo etnico italiano

7. Luis Durnawalder presidente della Giunta provinciale

L'APPROFONDIMENTO

Il nuovo Statuto, motore della crescita e dello sviluppo del Trentino

Anni Settanta

Anni Ottanta

Le traiettorie dello sviluppo

 

CAPITOLO XVII. La chiusura della controversia internazionale

1. L'autonomia finanziaria e le ultime norme di attuazione

2. La «Quietanza liberatoria»

3. L'«autonomia dinamica»

 

CONCLUSIONI. L'autonomia della convivenza

L'autonomia del Trentino non è al traino di quella sudtirolese

Il discrimine del buon governo

Perché va riscoperta la Regione

Introduzione

di Paolo Pombeni

Bene hanno fatto Mauro Marcantoni e Giorgio Postal a stabilire una stretta correlazione fra le vicende dell'autonomia trentina e sudtirolese. Non è solo questione, come spesso si afferma da parte di una storiografia distratta, dell'origine di entrambe nella loro versione attuale dall'accordo Degasperi-Gruber del 1946. Questa stessa origine, come dirò tra breve, ha le sue radici in una vicenda precedente, che è peculiare della regione alpina. Essa non è neppure semplicemente il contesto dell'impero asburgico, che pure ne costituì la fase finale.

La radice profonda del sistema autonomistico delle vallate alpine si situa nel complesso sistema delle fedeltà medievali, laddove non esisteva «lo Stato» così come noi oggi siamo abituati a pensarlo, ma un intreccio di autogoverno di una pluralità di corpi, territoriali, ma non solo, che poi confluivano a piramide verso autorità superiori in grado di garantire e governare la convivenza, più o meno armonica, fra di essi nell'ambito di contesti via via più ampi (sino alla mitica res publica chiristianorum).

In un certo senso si trattava di qualcosa di simile a quel sistema che noi oggi chiamiamo della sussidiarietà, cioè l'attribuzione dei poteri di intervento politico nella sfera sociale ed economica al livello più vicino al contesto che di volta in volta si va toccare (purché ovviamente questa vicinanza possa esprimere un adeguato livello di efficacia).

Il Sacro Romano Impero fu il sistema politico che più a lungo mantenne questa tradizione, ancora mentre si formavano, pur con caratteri molti diversi, le statualità della Francia e di quella che sarebbe diventata la Gran Bretagna. Ancora nella sua ultima fase esso apparve a più di un critico una struttura «simile ad un mostro» per la mancanza di un centro in grado di imporre realmente il suo potere su tutto il vastissimo territorio che gli era formalmente soggetto, capace invece al massimo di tentar di essere un «sistema di giustizia», cioè un regolatore di ultima istanza dei conflitti che si accendevano al suo interno.

La rivoluzione moderna vide poi il prevalere del modello dello stato assoluto, in seguito trasformatosi con mediazioni nello stato costituzionale: qui il sistema di rappresentanza dei corpi si dissolveva infine nella rappresentanza degli individui, secondo la celebre formula delle leggi Le Chapelier della rivoluzione francese: «tra lo stato e il cittadino non c'è nulla». E si proseguiva: «L'annientamento di ogni specie di corporazioni di cittadini del medesimo ceto o professione essendo una delle basi della costituzione, è vietato di ristabilirle sotto qualunque pretesto. Non vi saranno più corporazioni dello Stato, non vi è più che l'interesse particolare e l'interesse generale» (14 giugno 1791).

Certo l'assolutismo delle formulazione appena ricordata sarebbe stato modificato ben presto dalla realtà storica. I moderni partiti politici da un lato, così come la progressiva rinascita di identità territoriali interne agli stati unitari dall'altro, avrebbero segnato un panorama costituzionale in continua evoluzione. Il tema del «federalismo», la bestia nera dei primi teorici della rivoluzione francese, non sarebbe scomparso dall'orizzonte, anche se esso avrebbe perso i connotati originari contro cui quelli avevano polemizzato: non più lo stato come somma di corporazioni territoriali e d'altro genere, ma semmai uno stato che nasceva, come nel caso emblematico degli Stati Uniti d'America (per non parlare di quello considerato del tutto eccezionale della Svizzera), da una volontaria unione di stati pre-esistenti.

In questo contesto, che da fine Settecento arriva alla soglia della Prima Guerra Mondiale, l'impero asburgico costituirà una sorta di continuazione bastarda del Sacro Romano Impero. Da un lato esso non poteva sfuggire al trend storico della centralizzazione razionalizzatrice, dall'altro aveva a che fare con l'eredità di un sistema nato per aggregazione di corone e titoli nobiliari sicché ciò postulava una certa preservazione delle identità corporate che in esso erano confluite.

È in questo orizzonte che è nato anche quel fenomeno che con troppa leggerezza si definisce come «il Tirolo storico», cioè l'inserzione, a causa della conclusione delle guerre napoleoniche, di quello che noi oggi chiamiamo il Trentino nella antica principesca contea del Tirolo. Dal 1815 al 1918 abbiamo dunque la realtà complicatissima di un sistema imperiale in cui al Land tirolese, sempre più identificato con il cuore «austrotedesco» della duplice monarchia, sono preservati forti poteri di autogoverno, che poi si declinano in sistemi di relative autonomie comunali, in parte discendenti da una base storica in parte derivate per concessione dal nuovo centro amministrativo. Nel suo territorio però vige una disomogeneità linguistica, che, nel nuovo affermarsi delle culture che da fine Settecento in avanti legano lingua ed identità «nazionale», non può ri­manere senza riflessi su un sistema politico costretto, in parte non piccola suo malgrado, a costituzionalizzarsi, cioè a reggersi su una raccolta del consenso su base di partecipazione rappresentativa. Basterebbe ripercorrere le lotte fra Otto e primo Novecento per la trasformazione del sistema di suffragio sia a livello di Land che a livello di impero (per tacere dei livelli comunali) per rendersi conto della complessità di intrecci che comportava questa trasformazione.

Non si pensi che questo richiamo sia una pedanteria da storico di professione. Ritengo che se non recuperiamo una serie di radici lunghe, difficilmente potrem­mo capire il percorso così ben descritto da Marcantoni e Postal in questo libro e soprattutto non saremo in grado di comprenderne la drammaticità. Questo, al di là di altre considerazioni, mi pare essere il solo percorso intellettuale che può aiutarci, sperabilmente, ad avviare a soluzione una complessa tensione che continua ad esistere sotto traccia. Sono stati fatti, come vedrà chi legge le acute pagine che seguono, enormi passi in avanti, ma forse è giunto il momento di fare il passo decisivo, profittando della attuale contingenza storica generale. Essa da un lato, con l'affermarsi, per quanto al momento in crisi, dell'orizzonte dell'unità europea, potrebbe marginalizzare il vecchio modo di porsi il problema delle nazionalità, e dall'altro, con la crisi del tradizionale statalismo in conseguenza di quel fenomeno che banalmente chiamiamo «globalizzazione», potrebbe condurci a ripensare l'impianto di quel sistema che continuiamo a chiamare «lo stato moderno».

Torniamo dunque a seguire il filo del ragionamento storiografico. Quello che era il sistema dell'autonomia dei corpi territoriali, ciascuno con le proprie sedimentazioni storiche, venne messo sempre più in crisi da due fattori a cui non poté sfuggire neppure l'impianto dell'impero asburgico. La vecchia visione di un complesso di realtà politiche che condividevano lo stesso «signore» elevantesi poi ad autorità «imperiale» si rivelava sempre più antistorica. Difficilmente perseguibile poi nel caso dell'inclusione dei territori dell'ex principato vescovile di Trento, visto che l'imperatore non poteva ovviamente assumere per sé il ruolo, peraltro abolito, di principe-vescovo.

Messa in questo modo può sembrare quasi una irriverente storiella e naturalmente in termini strettamente storiografici lo è, ma serve per farci capire quanto la trasformazione post-napoleonica mettesse proprio questa realtà in una posizione assai peculiare. Naturalmente qui non si tratta di negare il rapporto storico che il Trentino aveva avuto nei secoli col Nord Europa e dunque con le autorità che lo gestivano. Si tratta di capire che vincoli di connessione feudale, sistemi di gravitazione economica e quant'altro non sono automaticamente prodromi di quelle fondazioni che con l'affermazione del sistema delle nazionalità ottocentesche sarebbero state messe a base dei moderni stati-nazione. Del resto la complessità di quel sistema e le sue implicazioni per quanto avvenne dopo sono state ora messe in luce in uno stimolante studio dello storico di Cambridge Brendan Simms (Europe. The struggle for Supremacy from 1453 to the present, New York, Basic Book, 2013).

Nel corso della trasformazione cui stiamo facendo cenno solo la Svizzera riuscì ad evitare che si imponesse una equazione tra sistema culturale di appartenenza fondato sulla lingua e inquadramento in un sistema statuale dipendente da quello. Per spiegarmi mi permetto di riferirmi all'esempio degli USA che di fatto imposero la loro nazionalizzazione attraverso una assoluta dominanza della cultura di lingua e matrice anglosassone.

Ciò non avvenne nel caso dell'impero asburgico, che però ne soffrì non poco. L'imposizione del tedesco come lingua dell'amministrazione centrale ed i conflitti culturali che più tardi ne seguirono sono solo un versante della nostra tematica. Nel Tirolo asburgico fino alla Prima Guerra Mondiale crebbe in misura sempre maggiore la tematica del rapporto tra identità culturale, auto­nomia e, per dirla in termini semplici, fedeltà all'impero come equivalente alla forma-stato ormai dominante. Ovviamente l'invasività dello stato moderno, la sua necessità di essere un Kulturstaat, cioè un sistema politico con compiti di civilizzazione totalizzante, rendeva la questione sempre meno teorica e sempre più politica in senso stretto. Per i tirolesi il loro essere austro-tedeschi era ormai una bandiera identitaria fortissima: non c'è qui lo spazio per ricordare tutte le leggende sul Tirolo cuore dell'Impero e della casa d'Austria (del resto qui venne a rifugiarsi la corte imperiale quando Vienna si sollevò nel 1848), ma senza riandare a queste non ci si rende conto delle radici di cui trattiamo.

Per converso per i trentini non c'era altro spazio che difendere la loro «diversità» pur nell'ambito dell'Impero (l'irredentismo comprendeva una quota modesta della popolazione), che sottolineare il loro carattere di italianità. Riconoscerla per l'Impero fu impossibile, non solo per le chiusure miopi dei tirolesi (che pure ci furono), ma perché la nascita del nuovo Regno d'Italia nel 1860 e il suo avventuroso successo nel 1866 postulavano di fatto una attrazione per quella concezione culturale dell'unità politica su base linguistica da realizzarsi sotto l'egida di un solo stato (ancora una volta solo gli svizzeri italiani resistettero sempre a quella fascinazione). Per l'Impero dunque concedere l'autonomia rivendicata dai trentini pur all'interno del suo sistema, sarebbe stato come riconoscere che essi erano non cittadini di quell'impero, ma minoranze estranee annesse.

Si tenga presente questo schema, perché è quello che condurrà poi Degasperi, politico trentino formatosi nella congerie a cui ho accennato, alla soluzione del 1946.

Come sappiamo, i trentini non ottennero mai di scindersi, come desideravano, da Innsbruck, pur restando sotto Vienna, e fu la Prima Guerra Mondiale a risolvere con le armi la questione. Qui cominciano però i guai che Marcantoni e Postal esaminano in questo saggio in dettaglio e con un rimarchevole spirito equanime.

La guerra non aveva solo risolto il problema, diciamo così, «risorgimentale» ed irredentistico del Trentino, ma ne aveva creati molti altri. Il primo era la definitiva prospettiva dell'Italia come «grande potenza», in quanto vincitrice di un conflitto «mondiale», il che l'aveva non solo esaltata, ma anche indotta a quel pensiero ingenuamente strategico che il confine andasse posto al Brennero in base alla teoria dei confini naturali sugli spartiacque e al timore atavico della rivincita germanica. Il secondo problema era dato dalla dissoluzione dell'impero asburgico, che aveva comportato sia una assenza di capacità contrattuale al tavolo della pace sia la difficoltà di valutare appropriatamente la natura di «confini naturali» per l'Austria come stato successore. Ricordiamo – è importante – che l'Austria nel 1919 non voleva neppure costituirsi come stato indipendente ed aveva chiesto di potersi unire alla Germania, cosa che non avvenne perché i vincitori lo vietarono. Dunque sottrarre una parte di territorio, considerato strategicamente importante per un vincitore, ad uno stato che non voleva neppure costituirsi non era una questione così problematica, né tale da suscitare nell'immediato grandi perplessità.

Questo punto è di notevole importanza perché in esso si radica una delle leggende che, come vedranno i lettori, stanno alla base della querelle sudtirolese: la mancanza di un «plebiscito» nel 1919 circa la allocazione di sovranità di quei territori. Qui va ricordato che la risistemazione del mondo che venne realizzata al termine della Prima Guerra Mondiale con la conferenza di Versailles e con le altre paci connesse non previde in alcun caso «plebisciti» nonostante i numerosissimi smembramenti e riaccorparmenti di popolazioni che vennero realizzati (si pensi, per fare un caso celebre, al famoso «corridoio di Danzica»).

Certamente la questione del confine del Brennero conobbe una disastrosa torsione nel periodo interbellico, specialmente durante il ventennio fascista. In questa fase vennero esasperate da parte italiana le tecniche di snazionalizzazione che, come minaccia, erano già state ventilate dal nazionalismo radicale austro tedesco: alle fantasie sul Trentino come Welschtirol reto-ladino vennero contrapposte le invenzioni di un Alto Adige con «radici romane», ma soprattutto si procedette ad una intollerabile e ingiustificabile operazione che tentava lo sradicamento della identità tedesca delle popolazioni sudtirolesi nonché ad una immigrazione guidata di elementi italiani per modificare gli equilibri etnici. Anche qui, in parte, nulla di nuovo sotto il sole: a suo tempo l'impero asburgico aveva operato in maniera simile per alterare gli equilibri fra popolazioni italiane e popolazioni slave sulla costiera adriatica.

Ciò che mi preme sottolineare, essendo scontata la condanna senza remore di quella politica di oppressione e snazionalizzazione, è che l'eco di quanto stava avvenendo nel Sudtirolo in quel periodo fu già allora ampiamente conosciuta nel mondo germanico e non solo. Citerò un episodio di cui sono venuto a conoscenza per caso, leggendo il bel libro di Wollfgang Schieder, Mythos Mussolini. Deutsche Audienz beim Duce (München, Oldenburg, 2013). Il giornalista e scrittore Gustav W. Eberlein, pubblicando a Berlino nel 1929 un libro non particolarmente critico sul fascismo, aveva già denunciato i comportamenti del fascismo contro i sudtirolesi, e del resto egli come corrispondente del «Berliner Lokal-Anzeiger» aveva più volte dedicato attenzione violentemente critica alla politica italiana in Sudtirolo. Si tratta solo di un esempio, perché certamente scavando si troverebbero molte altre testimonianze di questa attenzione tedesca, ed ovviamente anche austriaca, per il nostro tema.

È importante richiamare questo retroterra perché altrimenti si fatica a capire la copertura che nel mondo austriaco e germanico venne data al fenomeno terroristico degli anni Sessanta, anche al di là dei circoli neonazisti e panger­manisti a cui finì per far capo: l'identificazione della causa sudtirolese con una specie di riedizione rovesciata dei risorgimenti nazionali dell'Ottocento è un fenomeno da non sottovalutare.

Certamente centrale è invece l'origine della sistemazione attuale a partire dal noto accordo Degasperi-Gruber del 1946. Qui Marcantoni e Postal mettono bene in evidenza una serie di elementi che si tendono a manipolare da una parte e dall'altra, a volte anche ad opera di studiosi che dovrebbero avere gli strumenti per evitare certi fraintendimenti.

La tematica contiene due diverse componenti: la prima è se non sarebbe stato meglio che Degasperi e l'Italia esprimessero lungimiranza consentendo un ritorno del Sudtirolo all'Austria, nel presupposto che gli Alleati in fondo incli­nassero per quella soluzione; la seconda è che la soluzione dell'autonomia, che spettava per questioni etniche al solo Sudtirolo, venne estesa ad una regione che comprendeva il Trentino solo perché Degasperi voleva fare un regalo, in fondo indebito, alla sua regione d'origine.

Sul primo punto un esame sereno delle circostanze storiche non può lasciare dubbi. Degasperi non aveva alcuno spazio di manovra per consentire un ritorno del Sudtirolo all'Austria: se lo avesse non dico ottenuto, ma anche solo proposto, sarebbe semplicemente stato cancellato come leader politico. Il nazionalismo italiano era ancora vivo e il ricordo della Prima Guerra Mondiale era un mito presente in tutti i partiti. Come è noto, Togliatti, richiesto dalla vedova Battisti di agire per stabilire il confine italiano a Salorno, declinò l'invito convinto che sarebbe stato un suicidio politico. La disponibilità degli Alleati ad agire a fondo in favore della ricostituita Austria era più retorica che sostanziale: il nuovo stato veniva sì definito «prima vittima del nazismo», ma si aggiungeva anche che in quell'ambito si era reso colpevole di non poca collaborazione. Che strada avrebbe imboccato per il futuro era dubbio e c'era troppo interesse occidentale a non indebolire l'Italia per favorire avventure destabilizzanti. Quanto all'URSS nulla le era più estraneo, per evidenti ragioni interne e sulla configurazione dei suoi protettorati in Europa orientale, che favorire principi etnici per la fissazione dei confini e connessi plebisciti.

La soluzione di una autonomia ad uso di «minoranze linguistiche» da concedersi su base negoziale fra le due parti era dunque la prospettiva più avanzata fra quelle disponibili. Non sfugga però che con questo accordo si aprì una questione nella questione: veniva di fatto, se non proprio di diritto, riconosciuto che i sudtirolesi di lingua tedesca erano una minoranza nazionalmente «austriaca», e non, come si sarebbe sostenuto in seguito, «italiani di lingua tedesca». Se così non fosse stato, l'accordo internazionale non avrebbe avuto senso. Inoltre sembra a me che esso sia stato un unicum: infatti, per esempio, per l'Italia non esiste alcun diritto di tutela sugli italofoni non suoi cittadini: non dirò per quelli della Svizzera, ma neppure per quelli della nascente Jugoslavia. È stata avanzata la tesi che il governo italiano avesse acconsentito alla formulazione ambigua dell'accordo internazionale proprio nella speranza di ottenere qualcosa di simile sul fronte orientale. L'ipotesi è suggestiva e non è escluso che qualche pensiero in quella direzione sia stato fatto, ma non se ne cavò nulla, mentre la questione del nuovo stato austriaco come «tutore» dello statuto speciale dei sudtirolesi rimarrà centrale come si vede benissimo nelle pagine del saggio che presentiamo.

Quanto alla questione della creazione della regione Trentino-Alto Adige, essa rappresenta la diretta conseguenza del modo di impostazione dell'accordo Degasperi-Gruber. Nel momento in cui ci si doveva piegare in qualche modo ad internazionalizzare la salvaguardia dei diritti di una minoranza etnico-nazionale era necessario riportare la tematica nei confini di una questione «italiana»: quelle tutele non andavano ad una enclave etnicamente «allogena» che avrebbe finito per essere una specie di «protettorato» su un territorio non totalmente incluso nella sovranità nazionale, ma costituivano il modo di essere di una regione speciale in cui si poteva parlare in senso proprio di «minoranza di lingua tedesca» perché la maggioranza era indubbiamente italiana.

Come ho già avuto occasione di scrivere, si trattava semplicemente, in termini capovolti, della sistemazione che l'impero asburgico aveva dato alle domande dell'autonomia trentina mantenendole dentro la cornice dell'autonomia del Land Tirolo per evitare che quella concessione sancisse indirettamente un legame con la «patria italiana».

Oggi, col consueto senno di poi, ci si può interrogare a lungo sulle ambiguità e sulle debolezze intrinseche della soluzione recepita dall'accordo Degasperi-Gruber, ma nel difficile contesto immediatamente postbellico pensare a qualcosa di meglio era sostanzialmente impossibile. Come riconobbe lo stesso Gruber in un incontro decenni dopo con mons. Iginio Rogger, ottenere una buona autonomia per il Sudtirolo era possibile solo ancorandola al costume auto­nomistico della parte italiana della Regione. In caso contrario probabilmente l'Assemblea costituente non avrebbe fatto passare l'accordo: anche qui giova ricordare che già l'approvazione del Trattato di pace non fu senza tensioni e che l'approvazione del primo Statuto della nuova regione, come si documenta nelle pagine seguenti, non fu esattamente una passeggiata.

La storia che viene sviscerata da Marcantoni e Postal ha in questo retroterra le sue radici. Da un lato c'è la questione della Regione, ente dal profilo incerto per la presenza di due provincie con caratteristiche evidentemente del tutto particolari nel panorama italiano. Dall'altro lato c'è la realtà del Sudtirolo, territorio profondamente ferito da un ventennio di travagli, percorso da fermenti identitari filo-germanici nel momento in cui tanto la Germania quanto l'Austria erano realtà in situazioni assai difficili, piene di risentimenti, ma anche capaci di una ripresa più rapida di quanto si fosse immaginato. Specularmente esisteva un Trentino anch'esso segnato da cicatrici politico-culturali profonde, perché il fascismo l'aveva relegato in una situazione di minorità dimenticando presto tutte le promesse sugli «irredenti» a cui era stata lasciata in dote solo un po' di retorica patriottarda.

Naturalmente il compito degli storici non è quello di distribuire pagelle di lungimiranza o di ottusità ai vari personaggi che si alternano su questa scena: gli autori del saggio che segue sono molto attenti ad una ricostruzione il più possibile imparziale di una vicenda che diviene sempre più ingarbugliata.

Lasciamo al lettore la valutazione della prima fase dell'autonomia, quella se­gnata da un tentativo, a mia impressione abbastanza maldestro sia sul versante trentino che su quello sudtirolese, prima di collaborazione in un contesto nazionale difficile come furono i primi anni Cinquanta (un contesto che allora, mi pare di poter dire, non si comprese), poi di rottura in parte per le stesse ragioni di incapacità di muoversi da parte dei due attori politici nel contesto del «centrismo» nazionale.

La sua crisi centrale sarà a questo punto il precipitare nella spirale del terrorismo. Sia consentita a questo punto una riflessione: la lettura delle pagine che sono dedicate a questi eventi è quasi sconvolgente. Stiamo parlando di una lunga stagione, più di un decennio; di un numero impressionante di morti, quasi tutti uccisi in maniera vile; di una stagione di tensioni esasperate. In aggiunta a una stagione che vide una mobilitazione incredibile di mezzi di informazione trascinati nella spirale nazionalistica, a volte sino alla irrazionalità più totale, tanto in chi vedeva dal versante tedesco e germanico nei terroristi sudtirolesi dei «resistenti» (forse sulla suggestione delle sollevazioni anticoloniali degli anni '50 che avevano fatto molto scalpore in Europa), quanto in chi spingeva lo stato italiano a rispondere a questa sfida in maniera draconiana come momento per affermare la sua rinascita di potenza. Eppure il trauma di quella stagione è stato oggi dimenticato, se si eccettuano frange estreme, e sembra impossibile che davvero ci sia stato un decennio di sangue di quella portata.

La spiegazione di questo fenomeno risiede in buona parte nel fatto che i veri protagonisti della vicenda, cioè lo stato italiano nella persona dei governi e dei ceti dirigenti allora in carica e sull'altro versante gli stessi dirigenti della SVP, il partito di raccolta dei sudtirolesi, seppero mantenere sostanzialmente sempre non solo i nervi saldi ma anche una prospettiva realistica verso le questioni in campo.

Fra i meriti di questo libro vi è senz'altro quello di avere documentato rigorosamente questo percorso. Naturalmente stiamo parlando di uomini e dunque ci furono momenti critici da ambo le parti. Tuttavia se pensiamo che soprattutto sul fronte sudtirolese la dirigenza della SVP era in mano ad elementi abbastanza radicali, che per di più dovevano tenere a bada componenti molto più radicali che avevano un largo seguito, appare notevole il senno politico che la portò ad ottenere risultati più che notevoli lasciando da parte tutte le utopie insurrezionistiche e le fantasie sul portare indietro l'orologio della storia. Anche sul fronte italiano ovviamente non mancavano le difficoltà, non solo considerando la forza dell'estrema destra fra gli italiani dell'Alto Adige, ma anche avendo presente sia il nazionalismo non sopito della cultura italiana sia il suo orgoglio per la conquista di una posizione importante nell'ambito internazionale (e non si dimentichi che nel 1961 si era celebrato con successo il primo centenario dell'unità d'Italia). Fu merito congiunto della dirigenza politica trentina, specie di quella della DC, di italiani dell'Alto Adige come l'on. Berloffa, ma anche di alcuni politici nazionali come Aldo Moro o come Giulio Andreotti, che con la realtà sudtirolese avevano avuto qualche rapporto (ma vanno ricordati anche personaggi come Scelba e Segni, da cui ci si sarebbero potuti aspettare atteggiamenti diversi, mentre personalità come Fanfani o Saragat erano più preparate ad impostazioni dialoganti).

Chi oggettivamente fa, diciamo così, brutta figura in questa ricostruzione è la classe dirigente austriaca seguita a Gruber. Essa fu, sembra a me, un aiuto modesto alle attese dei sudtirolesi, perché non riuscì a capire che le sue connivenze, ormai ampiamente dimostrate, col terrorismo non aiutavano la causa e perché la sua ostinazione nel non demordere mai sotto sotto da una speranza di ridefinizione dei confini la ponevano fuori del trend storico dell'epoca. Certo è comprensibile che un Paese che, come è noto, aveva grandi problemi di identità subisse la tentazione consueta di costruirla nella ripresa tardo-romantica di appoggio ad una presunta lotta di liberazione nazionale e nell'illusione che poter portare all'ONU la questione le ridesse un ruolo nelle relazioni internazionali.

Quel che è importante è che alla fine di questo doloroso travaglio durato un ventennio si sia trovata la soluzione del secondo Statuto di autonomia, con la previsione del suo conferimento a due Province solo nominalmente unite sotto l'egida della vecchia Regione, ma di fatto quasi del tutto indipendenti l'una dall'altra.

La domanda che ora sorge è se si possa considerare questa soluzione definitiva. Indubbiamente essa ha portato sul piano del benessere a conquiste notevoli in entrambe le provincie, peraltro anche grazie ad una fase di economia in forte espansione (fase che oggi appare quanto meno in crisi). Ha registrato anche una pacificazione che appare consolidata non solo fra le tradizionali componenti etniche nel Sudtirolo: anche qui la globalizzazione, con la ripresa dei flussi migratori extraeuropei e dall'est Europa, costringerà probabilmente a smorzare le formule delle difese delle identità culturali tradizionali (per dirla con una battuta: il multiculturalismo va ben oltre il bilinguismo). Il Trentino da parte sua ha superato certi antichi complessi di inferiorità, avendo conosciuto, anch'esso grazie al nuovo Statuto, una imponente crescita economica, ma, al tempo stesso, grazie alla creazione dell'Università ed alle attività di ricerca che a questa sono connesse, una capacità di presenza internazionale che un tempo non aveva e che gli danno una legittimazione di cui forse non è ancora pienamente cosciente.

Ciò che preoccupa davvero non sono allora rigurgiti folkloristici e passatisti che sono presenti tanto in Trentino quanto in Sudtirolo. In tutti i tempi di crisi storica, e questo lo è molto più di quanto non si voglia ammettere, è quasi scontato si sviluppi lo spazio per il rifugio consolatorio in fantasie che mescolano una storia reinventata alla buona e l'anestetizzazione delle ansie in improbabili scenari di ritorno all'età dell'oro. La questione è che, temo, non sia più praticabile la soluzione di una autonomia fondata sulla semplice devoluzione ad una specificità territoriale di una buona quota del benessere generale.

L'autonomia non potrà di conseguenza più essere semplicemente l'autogoverno che ci viene riconosciuto circa un benessere che il sistema politico generale (dello stato, ma anche del sistema internazionale) comunque possono produrre e farci produrre. Da qui in avanti probabilmente ci sarà necessità di governare una crisi facendo in modo che essa possa essere superata senza consentirle di distruggere i buoni risultati che si sono raggiunti negli anni tormentati ma creativi della storia che Marcantoni e Postal hanno ricostruito. Questo significa riprendere in mano la tematica delle dimensioni territoriali dello sviluppo, delle sinergie che esso richiede, degli orizzonti verso cui tendere, interrogandosi se esse siano governate dalle vecchie logiche che fra Otto e Novecento crearono gli stati-nazione, se siano ancora sufficienti i sogni su una integrazione europea diciamo così alla buona, se la difesa dello welfare state come lo abbiamo conosciuto possa ancora realizzarsi semplicemente rinchiudendosi in qualche «ridotto» tutelato da vecchi privilegi.

In questo nuovo contesto il problema della difesa delle identità assume nuovi caratteri, visto che, nel tramonto delle identità nazionali come le abbiamo conosciute, certe impostazioni ereditate non hanno più molto senso. Nell'Europa unita, che speriamo non venga meno, le tutele generali delle peculiarità culturali avranno più forza dei vecchi tutoraggi nazionali, così come lo sviluppo di sistemi di autonomie a cui assistiamo con sempre maggiore frequenza (si sono arresi al regionalismo perfino i francesi della «une et indivisible...»), potrebbero consentire inedite formulazioni di collaborazione.

Certo bisognerà resistere alle sirene sempre in agguato delle «piccole patrie», delle Heimat alpestri, delle fantasiose rifondazioni di nazionalità da fumetti. Bisognerà anche liberarsi dal vecchio retaggio delle appartenenze «nazionali» nel senso ottocentesco del termine, per ritornare, mutatis mutandis, al concetto delle nationes medievali che potevano tranquillamente inserirsi in un sistema.

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