Un nuovo management pubblico come leva per lo sviluppo.
in Pubblicazioni e Libri

Un nuovo management pubblico come leva per lo sviluppo

Atti del seminario “Società complessità inclusione”

Livia Ferrario Mauro Marcantoni

Quarta di copertina

Dopo il primo focus del ciclo di seminari “Un nuovo management pubblico come leva per lo sviluppo” su “Istituzioni norme risultato” di cui sono stati pubblicati gli atti sul precedente numero di questa collana, continua il percorso di analisi dedicato alle sfide che attendono la Pubblica Amministrazione, con l'intento di identificare gli strumenti più idonei per superarle. A partire dall'innovazione sociale, concetto evoluto di sussidiarietà, vera prova per tutti i cittadini e per le istituzioni a cui si chiede di cambiare rotta, guardare al futuro distaccandosi da schemi precedenti, certamente più facili e consolidati, ma ormai in grande parte esauriti a causa delle complessità In cui versa la società moderna.

Una complessità fatta di flussi migratori, geopolitici, finanziari e tecnologici, in cui adottare un paradigma nuovo vuol dire trovare la via per favorire l'inclusione sociale, riscoprire la reciprocità, ovvero la fiducia tra le parti e, più di tutto, recuperare il senso di collettività perduto. 

Angeli Franco

Presentazione, di Ugo Rossi

Considerazioni introduttive,

Mauro Marcantoni

Livia Ferrario

 

“Società complessità inclusione”

Premessa, di Luciano Hinna

Abstract

1. Premessa

2. Come si inquadra questo secondo seminario

3. La multidisciplinarietà la leva del cambiamento

Conclusioni

 

1. Lectio Magistralis di Ilvo Diamanti

Abstract

1.1. Complessità: società, economia e politica

1.2. Non una, non due, ma tre Italie

1.3. Un Paese di compaesani: il caso del Centro- Nord Est

1.4. La reciprocità, ovvero: della fiducia

1.5. L'opinione pubblica e la complessità delle reti

Conclusioni

 

2. Una divaricazione da ricomporre tra società e istituzioni di Nadio Delai

Abstract

2.1. La constatazione di un evidente compimento di ciclo

2.2. Tre modalità “obbligate” che aiutano a riavvicinare società e istituzioni

2.3. Un promemoria (conseguente) della propria attività di dirigente pubblico

Conclusioni

 

3. Inclusione e welfare sociale di Cristiano Gori

Abstract

3.1. Introduzione

3.2. La realtà attuale

3.3. Come affrontare l'epoca delle prospettive incerte?

3.4. Dare «+interventi a -utenti» o «-interventi a +utenti»?

3.5. Rinunciare a spendere in altri settori per potenziare il welfare sociale?

3.6. Libertà di scelta di prima o di seconda generazione?

3.7. Di quale innovazione abbiamo bisogno?

 

4. La fatica di cambiare. Approcci al mutamento della società italiana, di Cristiano Vezzoni

Abstract

4.1. Le caratteristiche del cambiamento nelle società contemporanee

4.2. Un esempio di cambiamento sociale: l'immigrazione e le religioni

4.3. La classe dirigente di fronte al cambiamento sociale

4.4. Quale strategia di fronte al cambiamento

Conclusioni

 

Lavori di gruppo

Gruppo 1 Paola Pompermaier

Gruppo 2 Nicoletta Conci

Gruppo 3 Nicoletta Rizzoli

Gruppo 4 Stella Giampietro

Gruppo 5 Mauro Masini

Gruppo 6 Gianfranco Maraniello

Gruppo 7 Mauro Piffer

Gruppo 8 Michele Michelini

Gruppo 9 Claudio Martinelli

Gruppo 10 Stefania Marconi 

Introduzione

di Mauro Marcantoni

Oggi più che mai, è importante tenere conto dei risultati. Per la tradizione italiana è accettabile che un'istituzione possa cambiare strumenti mantenendo il suo fine, ma qui è il fine a cambiare natura, perché il fine diventano i risultati. Mentre la relazione fine/strumenti può esse­re facilmente compresa entro i parametri giuridici, quella tra risorse e risultati inserisce elementi nuovi, meta-giuridici, perché il modo per misurare e valutare i risultati porta fuori dall'alveo della coerenza giu­ridico-amministrativo e mette in campo aperto.

Da questa riflessione è nato lo sviluppo del secondo seminario in­centrato sulla società, sulla complessità e sull'inclusione, di cui qui so­no pubblicati gli Atti. I tre termini citati hanno una dimensione diversa da quella giuridica. Si entra nel campo della politica, in senso lato, alla maniera anglo-sassone, come policies e non come politics, cioè come attenzione ai risultati, non alle dinamiche dei singoli partiti o della po­litica intesa come gioco per il potere.

È bene considerare nello specifico i tre termini.

Il primo – società – induce alla riflessione sulla funzione pubblica rispetto all'evoluzione sociale. Nella tradizione storica la funzione pub­blica aveva funzioni sostanzialmente regolatorie, serviva per applicare le leggi, regolare la vita collettiva, ramificare il potere statuale dentro le molecole della società. Perciò la dimensione giuridica comprendeva ogni aspetto ed era il nutriente di tutta la sua attività. Via via la funzione pubblica ha cominciato a erogare servizi per i cittadini, perciò alle funzioni relative all'amministrazione del potere, si sono affiancate funzioni di tipo redistributivo. La funzione pubblica non era perciò (solamente) la macchina operativa delle funzioni statati, ma assumeva su di sé anche funzioni di coesione sociale, di erogazione di servizi e di vantaggi concreti per i cittadini. Già in questo modo si andavano sviluppando le sue funzioni “politiche”, cioè di carattere generale, non legate all'esercizio del potere, ma di servizio verso i cittadini. Nuove funzioni, per altro sempre più ampie, perché comprendono i trasporti, l'istruzione, la sanità e progressivamente molti aspetti della vita sociale, hanno poi determinato l'elefantiasi della macchina pubblica e la crescita conse­guente dei suoi costi. Si è perciò entrati in una stagione, da cui non si è ancora usciti, in cui la cultura aziendalista, per necessità di cose, si è affermata nella cultura pubblica. La cultura aziendalista di relazione tra risorse e risultati, in una parola, di efficienza della macchina pubblica, ha avviato un primo radicale cambiamento di paradigma. Un processo sintetizzabile così: funzioni pubbliche crescenti, attenzione ai costi e ai risultati, esordio della cultura aziendalista, derivante dalla cultura privata d'impresa.

Nel frattempo le stesse funzioni di servizio, in una parola del welfare, si sono andate modificando rispetto alle stesse loro ragioni d'e­sistenza. Ad esempio, il primo ingresso della funzione pubblica nella sanità era determinato dalla necessità di assicurare a tutti, a prescindere dalla disponibilità del reddito, un servizio sanitario sufficiente, di base e universale. Una collettività non si poteva sentire davvero tale se le differenze economiche determinavano chi potesse avere cure e chi no. In una visione solidale del vivere comune, questa discrepanza era inaccettabile. Che dire però oggi che le cure sanitarie si sono, e per fortuna, così esponenzialmente allargate e che la concezione di ciò che sia il loro livello essenziale e necessario si sia notevolmente alzato? Qui comincia un'altra discussione, non d'ordine giuridico, ma appunto politico, su cosa debba erogare lo stato, cioè la funzione pubblica finanziata dai cittadini, o cosa invece sia una prestazione con un carattere puramente privato, da finanziarsi conseguentemente con le risorse private. Offrire tutti i servizi sanitari a tutti, servirli bene, su tutti gli ambi­ti è una sfida molto pesante per la funzione pubblica, perché richiede risorse crescenti, una cultura organizzativa di tipo nuovo e un'attitudine a cogliere le necessità che nascono spesso nell'alveo privato e poi si espandono fino a diventare domanda pubblica. Insomma la società a cui si rivolge la funzione pubblica è molto cambiata e nessuna riflessione sull'efficienza pubblica può essere esonerata dal fare i conti con questa nuova identità sociale.

Il secondo termine della riflessione riguarda la complessità. Già s'intuisce dalle righe precedenti che l'estendersi per quantità e l'innalzarsi per qualità, delle funzioni pubbliche, ha come impatto immediato una maggiore complessità rispetto al passato degli strumenti, dei risultati, della misurazione e della percezione della stessa funzione pubblica.

Cambiano gli strumenti, perché oggi la Pubblica Amministrazione non è solo un insieme di ordinanze e di procedure, ma è anche capacità di mixare più strumenti. Per raggiungere un obiettivo, talvolta c'è bisogno solo della norma, talaltra c'è bisogno di creare un nuovo soggetto che conduca al risultato preposto e in altri ancora la soluzione è di nuovo diversa. Anche i risultati vanno trattati in maniera diversa, perché escono dall'alveo della coerenza amministrativa. Un esito può essere perfetto dal punto di vista delle procedure e delle coerenze giuridico-amministrative, ma non sortire l'effetto desiderato nella realtà delle attese dei cittadini, delle famiglie o delle imprese. Oppure pensiamo al tema dei controlli. Siamo abituati al controllo ex-ante, cioè dell'esame dei soggetti che hanno le caratteristiche giuridiche per ottenere un be­neficio o aderire a una norma. I controlli sono però minori sul piano ex-post, cioè della misurazione dei risultati. Questo non avviene perché ci sia ignavia amministrativa, o ci sia pigrizia. Questo può anche accadere. Però la ragione più profonda è che i soli strumenti amministrativi non bastano, non sono sufficienti, per poter dimostrare la bontà o meno dei risultati. Per dire che l'esecuzione di un progetto, il lavoro di un'agenzia, di un servizio sono apprezzabili, bisogna ricorrere a discipline più ampie rispetto a quelle amministrative. Bisognerà considerare le attese e confrontarle con i risultati; bisognerà renderne conto sul piano economico, in una logica ad accezione ampia della relazione costi-benefici; bisognerà capire se quel risultato abbia apportato e in quale modo, benefici anche su un piano sociale più generale e non solo rispetto stretto dell'ambito in cui agisce.

La complessità disciplinare è lo specchio della complessità della re­altà e dell'ubiquità qualitativa e quantitativa del ruolo della funzione pubblica. Strumenti più ampi e diversi; riferimenti più ampi e diversi; misure più ampie e diverse. Sono questi i nuovi parametri che com­porta la complessità. Naturalmente il rischio è che alla complessità si risponda con la genericità, con l'indistinto, con la molteplicità confusa dei punti di vista. Questa è la trappola che sta dietro la costruzione e il rispecchiamento della complessità.

Misurare la complessità significa allora predisporre di più strumenti, ma ciascuno ben tarato, a misurare l'impatto del processo amministrativo. Più strumenti, più indicatori, più ordini disciplinari possono con­tribuire, invece, a dare le risposte necessarie alla complessità.

L'ultimo termine è forse il più significativo, inedito e sorprendente. Perché parlare di inclusività, quando si parla di amministrazione po­trebbe sembrare un parlar d'altro. Ma non è esattamente così: significa, al contrario, parlare della cosa che oggi appare dirimente rispetto al futuro, non solo della Pubblica Amministrazione, e in specifico della dirigenza, ma del nostro modello di sviluppo della società.

La funzione pubblica per definizione include. Il servizio sanitario universale ha incluso tutte le famiglie e le persone dentro un sistema di protezione sociale; così è accaduto per le pensioni e la previdenza; così è accaduto per l'istruzione. La storia della funzione pubblica è questa: è una storia di inclusione, di persone, di ceti sociali, di “new comers”, se ci riferiamo al fenomeno prima Leggero e oggi enorme dell'immigrazione.

È evidente però che l'inclusione non potrà, anzi non può già essere, infinita, senza limite né di argomenti né di persone. La funzione pubblica non può essere una macchina vorace che includa via via ogni settore, ogni ambito economico, ogni aspetto della vita personale. I costi crescenti lo impediscono, anche se la libertà, anzi la concezione libe­rale che sta alla radice di tutta la costruzione del mondo occidentale, non può essere slegata dalla necessità dell'inclusione. Occorre perciò pensare l'inclusione stessa in altri termini, sia rispetto agli strumenti della funzione pubblica, sia come sistema generale di una società che risponde al bisogno di coesione. Se da un lato, infatti, è evidente che una funzione pubblica che non include perde buona parte della sua ragion d'essere, perché resta solo l'amministrazione dei beni pubblici e l'erogazione dei servizi essenziali, dall'altro, la nozione stessa d'inclusione, va ripensata. Se prima avevamo un'inclusione indistinta, generalizzata, universale, oggi dobbiamo pensare a un'inclusione selettiva. La possibilità dell'inclusione presuppone, infatti, anche un atteggiamento e una connotazione specifici da parte di chi attende di essere incluso, sia essa una persona o un'impresa. Si passa perciò da una concezione unilaterale dell'inclusione, in cui dall'uno, lo stato, si passa a tutti, indistintamen­te, a una concezione in cui si passa dall'uno a una selezione dei molti.

Ci sono innumerevoli esempi che possono essere offerti dell'idea di selezione nell'inclusione. Nei servizi sanitari significa che si passa dall'universalità (tutto uguale per tutti) a una in cui l'inclusione viene diversificata e le condizioni dell'inclusione stessa sono differenti, secondo la varietà delle condizioni delle persone. Già avviene ampiamente nei servizi sanitari. Avviene nell'immigrazione, secondo la condizione dell'immigrato economico, rifugiato, ecc. e mediante il pagamento delle tasse avviene anche nella scuola. Sono perciò innumerevoli i casi in cui un qualche tipo di selezione viene realizzata da parte di chi offre l'inclusione rispetto a chi la domanda. E sempre più si andrà su questa strada: la funzione pubblica eroga servizi, propone agevolazioni, favo­risce normative di privilegio verso categorie sempre più definite nelle loro caratteristiche. Ecco perciò come per questa strada si arrivi alla conclusione di mantenere la funzione pubblica, di mantenere il suo fine più elevato, che è appunto quello dell'inclusione e, allo stesso tempo, si evita che il processo inclusivo non abbia limiti né di costo né di nume­rosità degli aventi diritto.

La seconda strada che la funzione pubblica deve intraprendere per ottimizzare la sua presenza, è quella della divaricazione tra concetto di pubblico e concetto di statale. Non tutto ciò che è pubblico deve essere necessariamente statale. Il fine pubblico si può tranquillamente sposare, ad esempio, con un'erogazione privata del servizio. Abbiamo già molti esempi di come un fine pubblico possa avere soggetti privati a realizzarlo. Qui non c'è una concezione indistinta secondo la quale il privato è sempre e comunque migliore o più efficiente del pubblico. Questa idea è dei decenni scorsi, oggi siamo a un'evoluzione di questo concetto. Non importa che sia pubblico o privato il soggetto che eroga il servizio, l'importante è che lo faccia meglio, cioè servendo meglio e con costi inferiori. Se perciò il servizio di una scuola materna, una volta definito uno standard qualitativo di base, è realizzato meglio e anche con costi più bassi da un soggetto privato, allora è preferibile. Possiamo, anzi dobbiamo, anche considerare il caso opposto, perché talvolta un servizio può essere, per mille ragioni, svolto meglio da un soggetto pubblico che da uno privato. Si tratta sempre di giudicare dai risultati. Perciò il mondo va avanti con la fine delle visioni ideologiche, a favore di considerazioni più pragmatiche. Perché un servizio migliore è per definizione da preferire, chiunque sia a erogarlo, e il fatto che si possano ridurre i costi contiene pur sempre un concetto di interesse pubblico, perché costi minori significano tasse minori.

Possiamo però uscire da questo punto di vista quasi contabile, perché la modernità di queste concezioni inerisce anche alla stessa costruzione concettuale della funzione pubblica in maniera molto più radicale. Se l'attenzione è ai risultati; se la possibilità che ci sia una sussidiarietà pubblico/privata è ancora più sviluppata; se avere un soggetto privato o pubblico non fa differenza in sé, allora la funzione pubblica assume molto di più i caratteri regolatori, piuttosto che quelli solamente esecutivi. In questo modo la funzione pubblica si emancipa dalla coincidenza stretta tra regolazione/esecuzione/controllo che stanno tutti nel suo ambito, per assumere maggiore spessore proprio sul primo e sull'ultimo di questi due termini: sulla regolazione e sul controllo. La funzione pubblica si definisce perciò come il soggetto che esegue la volontà popolare determinando norme e obiettivi, poi lascia che l'esecuzione possa essere sia interna che esterna, e concentra la sua attenzione sul controllo, perciò sui risultati. In questo modo crea un virtuoso “conflitto d'interessi” perché da un lato si pone obiettivi e dall'altro controlla che essi siano raggiunti; mentre tenendo programmaticamente, e sempre e comunque, anche l'esecuzione al suo interno stabilirebbe una continuità da cui difficilmente potrebbe nascere il “conflitto” che accresce l'efficienza.

Cambia perciò l'idea di società, delle connotazioni e delle suggestioni che vengono in mente e si realizzano nella funzione pubblica; cambia la complessità della funzione pubblica, perché attraversa più discipline e attraversa più ambiti e più ordini; cambia il concetto stesso di inclusione, per diventare insieme più selettiva, ma anche più ambiziosa. Sono temi che s'intrecciano variamente e che mantengono un fil rouge molto forte. È su questi temi che si decide la scommessa della modernità dello stato e di tutto ciò che è pubblico, che si passa, davvero, il crinale del secolo nuovo e di tutto ciò che esso comporta. In questa matassa nuova bisogna cercare i fili della nuova tessitura e su questo siamo to­talmente impegnati.

 

Introduzione

diLivia Ferrario

Quando i problemi sono troppo complessi, come quelli che oggi agitano la nostra vita sociale, è compito delle pubbliche istituzioni evitare due rischi: il prenderne atto senza impegnarsi seriamente e coraggiosamente a risolverli e il semplificarli artificiosamente. Perciò dobbiamo giocare su due piani: quello della comprensione delle cose che accadono e quello della traduzione della complessità in norme e in azione coerenti, efficienti ed efficaci. In altri termini, le pubbliche amministrazioni devono essere in grado di non sottrarsi al confronto con la complessità del mondo, ma imparare a gestirla. Per poterlo fa­re, è necessario innanzitutto capire cosa sia la complessità, coglierne l'essenza, padroneggiarne gli effetti ed evidenziarne i possibili rimedi.

“La comprensione” diceva la filosofa tedesca Hannah Arendt, “va distinta dal possesso di informazione corretta o dalla conoscenza scien­tifica, perché è un processo complesso che non produce mai risultati inequivocabili. È un'attività senza fine con cui, in una situazione di mutamento e trasformazione costanti, veniamo a patti e ci riconciliamo con la realtà, cerchiamo cioè di sentirci a casa nel mondo”.

Ecco, la complessità produce equivoci, perché più si allarga la com­prensione, meno le cose sono nette. L'amministrazione però ha il do­vere di rendere tutto chiaro, lineare, semplice. Per raggiungere questo obbiettivo, sono necessari studi e ricerche, è bene allargare i confini della comprensione e poi restituirli non solo come processo di analisi, ma anche come azione di trasformazione sul mondo. Da un lato, quindi, si deve costruire una comunità professionale autorevole e competente dei dirigenti pubblici, dall'altro, invece, bisogna disporre di analisi di contesto frequenti e condivise. Analisi dalle quali discenderanno le strategie, ma anche le flessibilità organizzative fondamentali per lavorare. Oggi, infatti, siamo chiamati a garantire un'alta qualità dei servizi pur con risorse calanti e, per farlo al meglio, bisogna imparare nuovamente a lavorare insieme, adottando un approccio multidimensionale ai problemi.

Il caso del Portogallo può essere utile. Non bisogna aspettarsi inno­vazione solo dai Paesi più importanti del mondo, talvolta le buone idee possono essere generate e realizzate anche in contesti meno centrali. Nel caso del Portogallo, infatti, si sono individuate le reali necessità dei cittadini, le loro priorità e i servizi davvero essenziali da organizzare ma, anziché pensare automaticamente di farli erogare dallo Stato, si è fatto sì che fosse la stessa società a pensare alla loro creazione. È questo un concetto evoluto di sussidiarietà che costringe a ripensare la natura della dimensione pubblica.

In fondo, se la società offrisse una risposta autonoma ai suoi stessi bisogni, anziché semplicemente delegare lo Stato a farlo, si avrebbero in un colpo solo più coesione sociale, perché una società che pensa a se stessa genera coesione; più efficienza, perché ci sarebbe meno bisogno di risorse pubbliche e di un apparato pubblico “ad hoc”; più opportunità d'impresa sociale, perché l'organizzazione di questi servizi passa sempre attraverso la crescita di soggetti aziendali.

Ma dentro la rivoluzione culturale indotta dalla complessità c'è un ulteriore nuovo paradigma che comporta l'assoluta primazia dei benefici per i cittadini rispetto all'azione pubblica. Per questo, sarebbe necessaria una nuova forma di contabilità che contempli da un lato le risorse impiegate e dall'altro i benefici arrecati. È un'operazione non semplice, misurare i benefici non è immediato ed è difficile individuare i beneficiari diretti e indiretti, di breve o di lungo periodo. Però biso­gna fare ugualmente uno sforzo per misurare i risultati positivi ottenuti. Questa deve essere la bussola perché risorse che danno pochi benefici costituiscono un problema e bisogna risolverlo o riducendo le risorse o elevando i benefici. Questa forma innovativa di contabilità costituisce la nuova visione del ruolo della Pubblica Amministrazione, anzi la nuova ossatura del suo operare. Per queste ragioni si ritiene importante rafforzare il senso di appartenenza, rendere visibile la comunità professionale dei dirigen­ti pubblici che deve avere l'autorevolezza per potersi confrontare con l'opinione pubblica, con le parti sociali e con la classe politica. Serve, dunque, una comunità con un doppio registro, che venga giudicata non solo per il lavoro in sé, per l'attenzione che ciascuno vi riserva, per la dedizione che vi applica, ma per il risultato sociale di questo lavoro. Un dipendente pubblico, e ancor di più un dirigente, lavorano per tutti, per il benessere della collettività, non (solo) per la sua struttura o ufficio.

Oggi, in particolare, il bene comune non è lineare, confinato a pochi elementi oggettivi, ma è più ampio, più soggettivo, e comprende notevoli margini di quella che Hannah Arendt chiama “equivocabilità”, nel senso che il risultato dell'azione pubblica è sottoposto a più interpreta­zioni ed è soggetto a una molteplicità di fattori. Ecco, in una parola, la complessità. La stessa che bisogna, con uno sforzo, rendere più com­prensibile e preziosa per chi la finanzia, cioè per i cittadini.

È questa la grande sfida che le pubbliche istituzioni devono vincere se non vogliono abdicare al proprio ruolo. Una sfida che tocca la società e la Pubblica Amministrazione e che riguarda nel profondo anche le autonomie speciali. In primo luogo il Trentino, perché essere più piccoli non vuol dire essere più semplici, meno esposti alla crisi epocale e ai problemi che affaticano l'economia e la comunità. Tra questi, l'inclusione, problema cruciale, oltre che di evidente attualità: dal dramma dei rifugiati a quello dei più poveri, dei più deboli, di chi, per diversità di lingua, di cultura o di religione, è relegato ai bordi della convivenza. Questione di fronte alla quale è innanzitutto necessario accorciare le distanze, a partire dalle pubbliche istituzioni. Anche in questo caso, il Trentino è un ottimo esempio, una realtà in cui le istituzioni ancora dialogano con le persone, in cui i cittadini possono contare su una strut­tura sociale solida e su corpi intermedi attenti e competenti.

Ma, come è noto, a livello nazionale è in atto un'equazione per cui il male è nei territori, nelle regioni e nelle amministrazioni locali, colpevoli di aver sperperato le risorse a disposizione. È necessario invece che l'amministrazione recuperi e trasmetta ai propri cittadini un senso forte di appartenenza alle istituzioni e al territorio. Empatia, sensibilità e dialogo sono gli strumenti indispensabili che chi opera nelle amministrazioni – i dirigenti in particolare – dovrebbe utilizzare per aprirsi al territorio, ai cittadini, alle associazioni, alle parti sociali, sapendo che, se tenuti insieme, questi elementi potranno guidare l'operato dell'azione pubblica, rendendola capace di affrontare con orgoglio, tenacia e coraggio le sfide che la attendono.

Obiettivo che in Trentino si è inteso raggiungere lavorando sulla mobilità sociale e dunque sulla scuola. Crediamo, infatti, che l'Italia oggi (e anche il Trentino, pur con minore acutezza), accanto a una crisi generalizzata, testimoniata dalla caduta della ricchezza reale, sia bloccata nella mobilità sociale. È, dunque, opportuno impegnarsi per garantire eguaglianza delle opportunità, cosa che per un'autonomia come la nostra è fondamentale e che trova senso non solo nelle sue radici, ma anche nella sua capacità di crescere e di rispondere alle sfide del mondo che cambia. Prime tra tutte, la società interconnessa delle reti, massima espressione di continuità comunicativa, da un lato, ma anche strumento dal consumo istantaneo e spesso superficiale, dall'altro. In ogni caso, simbolo di un cambiamento e di una innovazione irreversibili.

Per questo è necessario promuovere il capitale umano attraverso la scuola, puntando su un'istruzione di qualità e attenta alle nuove domande della realtà così da trasmettere le competenze indispensabili per affron­tare una “vita attiva” sempre più esigente e competitiva. È nella scuola che devono prendere forma e sostanza la coscienza civica e l'attenzione al merito. E questo a maggior ragione in una “società della conoscenza” come la nostra, in cui l'istruzione è al primo posto tra le priorità dello sviluppo. La possibilità di raggiungere buoni o alti livelli di istruzione deve quindi essere un'opportunità da garantire a tutti, senza dover ri­correre ad impegnative, e costose, “trasferte” extra-nazionali.

Per queste ragioni occorre puntare sulla formazione garantendo, in un contesto di pari opportunità, un'adeguata cultura della convivenza (per sostenere l'impatto delle trasformazioni sociali che ci investono) e la necessaria attenzione al merito (per sostenere l'impatto con il mercato globale), condizioni delle quali oggi abbiamo bisogno estremo.

Il tutto senza dimenticare il valore del territorio: sempre più centrale e importante per sostenere un processo di ricomposizione sociale, fatto di identità solide, culture collettive e valori condivisi. Un atteggiamento consapevole, competente e costruttivo, a cui siamo chiamati anche noi come dirigenti per riconnettere le istituzioni agli interessi collettivi, grandi o piccoli che siano, risolvendo e gestendo la complessità. Solo così, solo attraverso la produzione di cultura collettiva e del capitale sociale in cui essa si incorpora, si potranno favorire i due processi coessenziali della modernità: lo sviluppo e l'inclusione.

 

Lectio Magistralis

di Ilvo Diamanti

Abstract

«Se si riuscisse a definire la complessità in modo semplice, allora non sarebbe, non esisterebbe». A parlare è Edgar Morin, tra i più importanti filosofi e sociologi francesi, alle prese con il tentativo di chiarire cosa sia la complessità. Per risolvere questo concetto, è necessario, infatti, avanzare le giuste domande, trovando di seguito le giuste risposte. Ma chi può porsi tali quesiti: l'opinione pubblica? Ed esiste davvero una pubblica opinione nell'era delle reti? O spetta forse alle pubbliche amministrazioni locali recuperare il senso della collettività, reinventare la piazza, far risorgere le associazioni? Declinando il nesso tra «società, complessità e inclusione» è, dunque, possibile ritrovare la comunità, non rassegnandosi alla semplice co-esistenza di uomini soli?

1.1. Complessità: società, economia e politica

La società è complessa, incerta e non prevedibile. Eppure, necessaria­mente governabile. Da sempre, il sistema di semplificazione utilizzato per risolvere tale complessità è stato il nesso tra «società – economia – politica». Fattori dai quali sono derivati tre modelli di gestione delle società. Modelli che hanno funzionato fino a poco tempo fa e che sono intrinsecamente legati alla struttura territoriale del Paese.

Il sociologo ed economista Karl Polanyi, in particolare, ha indicato nella sua opera principale La grande trasformazione, i tre pilastri della regolazione sociale, quelli cioè che dettano le regole dell'agire. Tecni­camente: lo scambio, la redistribuzione e la reciprocità. Secondo la sua analisi, è possibile ricondurre lo scambio al mercato, la redistribuzione all'intervento pubblico e alla politica, e la reciprocità alle relazioni interpersonali e sociali, ovvero alla comunità. In questo quadro, al centro del mercato alberga l'interesse, al centro della politica: il governo, e al centro della reciprocità: la fiducia. Ma scambio, redistribuzione e reciprocità tendono a miscelarsi, con la prevalenza ora di uno, ora dell'altro, a seconda dei contesti.

1.2. Non una, non due, ma tre Italie

Tradizionalmente, si considera l'Italia divisa in due parti: Nord e Sud, con, da un lato, lo sviluppo, e dall'altro il sottosviluppo, inteso come sviluppo dipendente. Ma, declinando il rapporto tra società, economia e politica, gli studiosi Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia hanno identificato una nuova suddivisione. Non una, non due, ma tre Italie:

  • Nord-Ovest: in cui, a regolare il comportamento dei cittadini con lo Stato, sono la grande impresa e le metropoli;
  • Mezzogiorno: in cui è lo Stato a governare interamente la società, assistendola in larga misura, anche dal punto di vista economico;
  • Centro-Nord Est: in cui coesistono le zone bianche del Nord-Est, dove si è votato per tutta la Prima Repubblica per la Democrazia Cristiana, e le zone rosse del Centro, dove invece si è votato per il suo principale oppositore, il Partito Comunista. Ma cosa tiene insieme regioni così simili dal punto di vista socioeconomico e così diverse politicamente? Con tutta evidenza, la famiglia. Perché la politica conta ma, al di là del colore, è il tipo di rapporto che ha con l'economia e con il territorio a essere davvero determinante. Ciò vuol dire che in tali territori la reciprocità è forte. E sono forti i legami comunitari, centrati sui contesti locali e, appunto, sulla famiglia. All'origine di molte imprese, fonte di coesione e di inclusione.

1.3. Un Paese di compaesani: il caso del Centro-Nord Est

Sono tre le caratteristiche che, secondo gli italiani, li distinguono da altre popolazioni: la famiglia, l'arte di arrangiarsi, intesa come adattamento e flessibilità, e la creatività, motore dell'imprenditoria. Ciò significa che il nesso tra società e inclusione è robusto, quasi automatico, e l'economia stessa ne è lo specchio. L'Italia è, dunque, un Paese di compaesani, come la definisce il sociologo Paolo Segatti. Un territorio in cui tutti si sentono complici, tutti uniti contro lo Stato.

Concentrando l'attenzione sulla zona del Centro-Nord Est, in particolare, e riflettendo sul ruolo determinante svolto dalla famiglia, appare evidente come questa sia all'origine della piccola e piccolissima impresa, prevalentemente a conduzione familiare. Ma, pur con un substrato comune, vi è una differenza sostanziale tra il Nord-Est e il Centro, tra le zone bianche del Veneto e le zone rosse della Toscana e dell'Emilia Romagna. In queste ultime, infatti, è il partito che organizza la società: le associazioni del mondo locale, le associazioni sindacali, le associazioni ricreative vivono intorno al partito che, a sua volta, ha come ulteriore centro l'ente locale, il governo locale, le regioni e i comuni. Nel Nord-Est, ovvero nelle zone bianche, invece, non è così: il partito viene dopo, è sussidiario di associazioni e organizzazioni che sono legate al mercato oppure al mondo cattolico. Il compito della politica è, dunque, mediare ed essere allo stesso tempo dentro alla società. Anche la cosiddetta antipolitica. Almeno al Nord, infatti, anch'essa rappresenta non tanto un modo di distaccarsi dallo Stato, ma piuttosto un sistema di azione e di identità politica, uno metodo per relazionarsi proprio con lo Stato. Così, ad esempio, la nascita della Lega Nord in Veneto, al di là dell'approccio “secessionista”, può venire considerata la reazione nei confronti dello Stato di una popolazione che vive appena fuori dai confini della Provincia autonoma di Trento e vive con insofferenza il fatto che i trasferimenti pro capite possano essere sei volte minori rispetto ai «vicini» di casa. E la Lega, a ben vedere, proprio perché si propone come «canale del dissenso», ha assolto il compito che un tempo era della Democrazia Cristiana, insediandosi nelle stesse regioni. Dove la politica era incorporata nella società.

1.4. La reciprocità, ovvero: della fiducia

La reciprocità è un misto di interessi, di “scambi reciproci”, fondati sulla fiducia. Senza fiducia non esiste reciprocità. Legami di questo tipo sono propri di relazioni comunitarie e familiari, dalle quali origina la piccola impresa, perché se si ha fiducia si può considerare l'imprevedibilità o l'incertezza come rischi da affrontare.

È stata proprio la complicità, meglio: la reciprocità tra la società e le istituzioni, tra la comunità e la politica, tra la cittadinanza e i governi su base locale, a risolvere, almeno fino a qualche tempo fa, la complessità. Si pensi, ad esempio, a quando, nel 1993, subito dopo la vicenda di Tangentopoli, si è votata la Legge per l'elezione diretta dei sindaci, proprio per proporre un metodo attraverso il quale lo Stato poteva ri-stabilire la fiducia con i propri cittadini. L'obiettivo era, infatti, di surrogare la perdita di fiducia tra la società e il Governo centrale, spostando il consenso dai governi ai sindaci, dalle istituzioni centrali alle persone, a livello locale. Gli enti locali, dunque, invece di presentarsi come una versione minore dello Stato, lo rappresentavano di fronte ai cittadini, cosa che a Trento, in quanto Provincia autonoma, è sempre apparsa evidente.

Ma oggi, tali presupposti sono venuti meno. Secondo le indagini Demos, il grado di fiducia nei confronti dei comuni è precipitato attorno al 30%, mentre era al 50% cinque anni fa. Nei confronti delle regioni è sceso al 20%. Era il doppio nel primo decennio degli anni 2000. Peraltro, la fiducia nei confronti dei governi, riflette la fiducia, pardon: la sfiducia, nei confronti degli altri. Infatti, il 70% degli italiani ammette di essere diffidente nei confronti delle persone che non conosce. Le istituzioni e lo Stato, dunque, appaiono ai cittadini come degli “sconosciuti”. La “fiducia” verso i partiti, d'altronde, non supera il 3%, percentuale solitamente indicata come margine di errore statistico. E anche le grandi associazioni, che in passato servivano a cementare la società, hanno ormai perso di credito e fiducia. Il sindacato, non supera il 20%. Un peccato, se si considera l'importanza dell'associazionismo in quanto fonte di fiducia interpersonale. Un ruolo che oggi sembra interpretato quasi esclusivamente dal volontariato, unico “attore sociale” ancora degno di stima presso i cittadini.

1.5. L'opinione pubblica e la complessità delle reti

L'opinione pubblica è ciò che gli italiani pensano. L'opinione pubblica è, si può dire, la “posta in gioco” per “costruire il consenso”. Essa, infatti, è ciò che gli italiani pensano che gli altri pensino di loro ed è, in ogni caso, frutto di relazioni contrastanti e conflittuali. Perché “costruire” le basi dell'opinione pubblica significa orientare e controllare il consenso. Oggi, peraltro due fenomeni strettamente connessi tra loro hanno contribuito a complicare questo obiettivo: la globalizzazione e l'avvento della rete.

La globalizzazione è riassumibile nella percezione che tutto ciò che avviene dovunque può avere conseguenze e influenza sulla vita di ogni singolo individuo. Di ognuno di noi. Ovunque risieda. E ciò genera paura soprattutto fra coloro che sono meno globalizzati. Meno capaci di interpretare il mondo, di comunicare.

La rete, ovviamente, è uno strumento potente di globalizzazione. Un moltiplicatore. Oggi frequentata con regolarità da più del 40% dei cittadini, anche se non si tratta di una percentuale rappresentativa della popolazione: ne sono, infatti, esclusi gli anziani, le persone con minore livello di cultura e le casalinghe, a meno che non abbiano una certa formazione. Ma l'uso della rete è strettamente connesso alla crescita della sfiducia interpersonale e nei confronti delle istituzioni. Gli indici di sfiducia, infatti, in tutte le rilevazioni, crescono in base al tempo passato a utilizzare i social media e la rete. E questo perché la rete è utile a denunciare, molto meno a dialogare e a decidere, poiché in rete può accedere chiunque senza mediazione, senza filtro. Nascondendo la propria identità dietro a un alias, a un profilo.

La società della rete nella quale oggi gli italiani sono immersi, appa­re dunque costituita da persone sempre connesse, eppure sempre sole, anche se apparentemente circondate da altri utenti. Quasi una sorta di “folla solitaria”, per citare David Riesman.

Conclusioni

In una società dove la relazione diretta ed empatica declina, è possibile parlare di comunità? E senza comunità è possibile risolvere, quanto meno: affrontare, la complessità? Come si può dare una risposta al logoramento sensibile dello storico legame tra comunità, mercato e imprese senza subirne le conseguenze?

Per rispondere, si prenda in considerazione il comportamento politico ed elettorale in Italia: tra il 1948 al 2008 poco è cambiato, ma dal 2008 a oggi è mutato tutto. Si pensi, ad esempio, alle ultime elezioni europee, quando il Partito Democratico si è classificato primo in quasi tutte le province italiane, seguito da quello stesso partito che nega di essere tale, un non-partito: il Movimento 5 Stelle e, infine, dalla Lega. Il partito del territorio che, oggi, aspira a diventare “Lega nazionale”, seguendo l'esempio del FN di Marine Le Pen. Con un certo successo, visto che ha conquistato consensi anche nelle regioni Sud Italia. Ma ciò dà il segno della fine di un'epoca. Per questo diventa importante che le amministrazioni pubbliche, anche locali, recuperino e valorizzino l'associazionismo, non come volontariato di professione, ma come attore che genera senso della comunità.

Soltanto attraverso la socialità, infatti, è possibile ricostruire la fiducia, risorsa fondamentale dello sviluppo, non solo nella “Terza Italia”. Gli enti locali e i governi locali devono, di fatto, porsi il problema del rapporto con i cittadini, ritornando alla politica, ai partiti, alle associazioni. Investendo nelle piccole imprese. Perché altrimenti la complessità rischia di divenire ancora più complessa, la sfiducia continuerà a cre­scere e l'individualismo diventerà stile e modello di vita diffuso. Una condizione alla quale io credo che gli italiani non debbano rassegnarsi. Non solo per sostenere lo sviluppo. Ma per vivere una vita più sicura. Più felice. Di certo: meno infelice.

 

Premessa di Luciano Hinna

Abstract

Il tema trattato è quello delle tre culture: giuridica, economica e so­ciologica, tutte scienze sociali che nel tempo hanno ricoperto ruoli ed avuto pesi diversi e che debbono essere ri-bilanciate se si vuole inno­vare la nostra Pubblica Amministrazione.

La parola d'ordine è quindi multidisciplinarietà in un contesto che richiede sempre più specializzazione e la sfida per il manager pubblico è leggere i contesti utilizzando contemporaneamente il grandangolo e lo zoom e non un monocolo, ma lenti multifocali.

 

2. Una divaricazione da ricomporre tra società e istituzioni

di Nadio Delai

Abstract

Il mondo, così come lo conoscevamo secondo tradizione, non esiste più. Sommovimenti, più o meno forti, più o meno vicini, lo hanno radicalmente mutato imponendo alla dirigenza pubblica un'ampia capacità di riflessione e di rinnovamento. Condizioni che hanno generato, di conseguenza, una sensazione di confusione crescente e di inarrestabile complessità. Ora, per risolvere tali nodi, è necessario fare appello ai valori costituitivi della dirigenza: l'ascolto, l'inclusione, il recupero del rapporto con la società, ricorrendo a paradigmi vecchi e nuovi che potranno aiutare la Pubblica Amministrazione a ricreare le Mappe Mentali ed Emotive più opportune per gestire la nuova fase storica.

 

3. Inclusione e welfare sociale

di Cristiano Gori

Abstract

Nella storia del nostro sistema di protezione sociale il welfare sociale ne ha – per lungo tempo – rappresentato l'anello debole, rimasto soffocato tra il peso delle pensioni e quello degli ospedali. Il recente passato, invece, lo ha visto crescere in misura significativa, quanto a qualità dei servizi forniti e ampiezza delle risorse stanziate.

Fino a qualche tempo fa per il futuro del welfare sociale si aspettavano ulteriori passi in avanti, verso quel consolidamento che – nonostante i passi in avanti compiuti – è ancora mancante. Oggi, invece, le prospettive sono incerte. In un quadro segnato da bisogni in costante aumento, vincoli al bilancio pubblico e alterni risultati delle politiche realizzate, non è possibile immaginare quale direzione prenderà questo ambito negli anni a venire. La strada che il welfare sociale in Italia prenderà negli anni a venire dipenderà, innanzitutto, dalle risposte che saranno fornite ad alcuni dilemmi di fondo, discussi nel contributo. Tali dilemmi riguardano il finanziamento, la regolazione e l'organizzazione dei servizi di welfare sociale.

 

4. La fatica di cambiare. Approcci al mutamento della società italiana

di Cristiano Vezzoni

Abstract

Comprendere quale sia la difficoltà del cambiamento per la Pubblica Amministrazione è più facile se si pensa alla propria esperienza perso­nale. Tutti hanno vissuto momenti di transizione, più o meno volontari, progettati o giunti inaspettati. In questa situazione tutti hanno conosciuto la fatica di adattarsi e adeguarsi alle nuove circostanze. Quella del cam­biamento è quindi esperienza comune, ma il modo in cui lo si affronta può variare molto, da persona a persona, a seconda delle circostanze. C'è un modo negativo di affrontare il cambiamento, quando non si capisce ciò che sta avvenendo attorno a sé e si viene presi dal timore dell'ignoto. Ma può esserci anche un modo positivo per vivere le trasformazioni che ar­rivano nella propria vita, non richiudendosi su se stessi ma accogliendo i cambiamenti e rendendoli il combustibile per nutrire il motore della propria progettualità. In questo modo, rifiutando un approccio passivo, l'individuo potrà divenire protagonista della propria trasformazione, non subendo il cambiamento ma governandolo o addirittura definendolo.

Queste diverse modalità, si ritrovano anche a livello sociale e di Pubblica Amministrazione. Quale ruolo hanno delle classi dirigenti e il management pubblico di fronte ai processi di trasformazione radica­le che stanno caratterizzando la società italiana? È giunto il momento non solo di domandarselo, ma di provare a dare una risposta concreta a questo interrogativo.

knock off watches