News/Approfondimenti > 19 giugno 2009

Se la fine è anche l’inizio. Del Giudice ospite degli scrittori creativi

Domani si conclude la prima edizione della Scuola di Scrittura Creativa promossa e gestita da Trentino School of Management

In un semestre di attività i venticinque partecipanti hanno potuto approfondire il proprio rapporto con il senso e il metodo della scrivere con specialisti e scrittori di diversa estrazione. La Scuola, diretta da Isabella Bossi Fedrigotti e da Ugo Morelli, ha visto la partecipazione di persone con interessi diversi che spaziano dall’elaborazione creativa alla scrittura professionale. Domani i partecipanti presenteranno un elaborato personale e la giornata si concluderà con la lezione magistrale dell’autore Daniele Del Giudice che dialogherà con Giuseppe Varchetta.

di UGO MORELLI

È alla fine del tempo l'ora del vero sentire? Può essere questa una delle tante domande che si aprono chiudendo il libro di Daniele Del Giudice. Un'altra domanda, per chi conosce la traiettoria poetica dello scrittore, la sua rotta potrebbe essere: e ora? Dopo questo viaggio al limite del tempo e dello spazio, dove ogni mondo interno e ogni mondo esterno si incontrano con la propria finitudine, dove ci porterà la sua prossima esplorazione? Come al polo giunge a sintesi il tempo, così una sintesi tra le tante possibili del racconto di Del Giudice che si snoda nei suoi libri, a pensarci, si può riconoscere nel viaggio. Nelle molteplici varietà del viaggio.

Un viaggio alla ricerca della memoria nella Trieste metaforica e reale di Lo stadio di Wimbledon; un viaggio ossessivo, mirabile narrazione del nostro tempo, al cuore della materia e del nostro eterno cercare, in Atlante occidentale; un viaggio nel buio del non vedere e del vedersi dentro, in Nel museo di Reims; un viaggio nella passione del volo e nella sfida del vedersi dal di fuori in Staccando l'ombra da terra; un viaggio ancora nelle nostre espressioni limite e nelle manifestazioni estreme dell'umano in Mania. Infine un viaggio ora al limite di noi stessi, del tempo e della nostra dimora, in Orizzonte mobile.

Di quale viaggio si tratta, pur nelle sue poliedriche varietà, accomunate da una purezza stilistica cristallina, cifra unica e distintiva dello scrittore che, come pochi, narra l'essenza della nostra contemporaneità? Siamo forse di fronte al viaggio intorno e dentro se stesso dell'uomo del nostro tempo che, come Benjamin aveva intuito nei Passages, dice: «je voyage pour connaitre ma geographie? Nessuno può dire se per conoscersi bisogna giungere o portarsi alla fine del tempo e al limite dello spazio, in quel margine estremo dove non vi sono più margini, ma la ricerca poetica di Del Giudice è li che ci porta. Né è dato di sapere se poi saremo davvero migliori conoscitori di noi stessi e della nostra geografia.

Di certo, nel momento in cui sbagliamo strada, allorquando ci troviamo di fronte a un bivio senza alcuna indicazione, abbiamo modo di riflettere su noi stessi. Il distillato di linguaggio, quel «venire al linguaggio» tanto caro all'autore di cui il libro è intarsiato, indica con evidenza tutto il tempo della sua elaborazione, costruzione e scrittura; tutta la parsimoniosa astinenza a cui Del Giudice ci ha abituati, per porgerci poi una manciata di perle rare in forma di parole. Se il pinguino solitario che ci saluta nell'ultima riga del libro sia «traballante o danzante» non lo sapremo mai, cosi come non sapremo se ci saremo trovati perdendoci o conosciuti considerandoci dal limite. Scopriremo così che l'essenza sta nel cercare più che nel trovare, e ciò non appare mai cosi evidente come quando la fine e l'inizio coincidono. «Un giro completo vale un cambiamento delle cose, altrimenti che si gira a fare?» (pag. 9).

Non solo per girare serve il viaggiare, ma anche per fermarsi, per spaesarsi fermandosi e per ascoltare e ascoltarsi, finalmente: «Ho fermato la macchina in un punto che mi sembrava sicuro, ho spento il motore e le luci, sono sceso e mi sono messo a guardare le stelle. C'era un silenzio totale a parte il consueto rumore del vento. Mi sembrava che ci fossero molte più stelle, e non riuscivo a ricomporle nelle costellazioni a me conosciute, e mi sembrava che la terra conservasse lo spirito di chi l'aveva abitata e attraversata prima di me e che quello spirito, nel silenzio di ogni rumore umano e nel buio, a parte una sottilissima lingua più chiara all'orizzonte, potesse essere ascoltato» (pag. 44).

Possiamo cercare di trovarci solo guardandoci da luoghi estremi, come estrema è la nostra condizione. La «lucidità e finezza dello stile», come Asor Rosa definisce la poetica di Del Giudice (Storia europea della letteratura italiana, Einaudi, Torino 2009; vol. III; p.591), fa tutt'uno con l'essenzialità del mondo visto dal suo limite, in questo libro attraversato da una sottile malinconia. Come sempre in Del Giudice, quel sentimento traspare appena dal rigore formale; non è neppure suggerito e alla fine il lettore non saprà dire se è emerso dal proprio mondo interno di fronte alla pagina, o se a risuonare è quella connessione imprevedibile eppure struggente tra chi scrive e chi legge. Condotti riga per riga alla soglia estrema del mondo, alla fine vorremmo andare più in là, e non si può. Del resto con Orizzonte mobile Del Giudice racconta di questo bipede con un grosso cervello che noi siamo, che si spinge all'estremo, che tende a farlo per costituzione e distinzione evoluiva, che procede per tentativi ma non resiste alla tentazione, neppure di fronte alla interminabile serie di naufragi e fallimenti

Il viaggio della vita si snoda tra luci e ombre, come il paesaggio dell'Antartide, e le luci limpide e chiare, si sa, sono rare. «Da quando ho cominciato questo viaggio mi interrogo sul rapporto tra la natura e le storie. Il continente antartico, come ebbi modo di scoprire, non è quello delle immagini scattate nei rari giorni di tempo buono, dove tutto è ''bello'' e il bello corrisponde all'imperante criterio fotografico di solarità. Se c'è una bellezza è quella complicata dei grigi e degli opachi, del diafano e della luce drammatica e irreale. Nonostante la grande violenza, la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto del tutto accidentale. Per noi il paesaggio è sempre un sentimento del paesaggio, ma quello che qui chiamiamo paesaggio non sgorga dalla coscienza, bensì la altera e le impone un'altra direzione. Per questo le storie antartiche sono così nervose» (pag. 93-94).

La poetica si innalza, si auto eleva, così al livello del dramma shakespeariano e interroga l'essere e il suo significato; l'epica del piccolo titanico uomo di Melville che sfida la natura, il mare e la vita finisce per risuonare nelle pagine di Orizzonte mobile. Non siamo di fronte ai pur richiamati scrittori di viaggio, no. Siamo nelle eleganti ed essenziali descrizioni delle trame della vita. La scrittura nitida e lo sguardo analitico che la sostiene ci pongono innanzi il sentire del Novecento e quel disincanto capace di includere la molteplicità della condizione umana, evitando le derive del narativismo intimistico e la separazione della tecnica dall’esperienza: due tratti del pensiero del secolo tra i più problematici e perniciosi. Del Giudice non ha mai concesso nulla alla narrazione per la narrazione, in tempi in cui quella categoria è stata abusata fino al limite dell'ideologia e dello svuotamento di senso.

Collocato fra il reale e il possibile del linguaggio, Daniele Del Giudice —come pochi altri tra i quali si deve annoverare Ian McEwan — elabora, scrivendo, una poetica della nostra condizione di cui la tecnica è un attore, in quanto umana e null’altro che umana. Nell'assumere la complessità della nostra condizione, di fronte ad essa, senza scorciatoie e senza sconti, l'autore lascia emergere la propria poetica e ce la consegna in pagine dense di connessioni tra chi osserva e racconta e chi, leggendo, le sente risuonare in sé e in quel sentire si riconosce. Recentemente abbiamo scoperto che quella risonanza è uno dei tratti distintivi naturali della nostra storia evolutiva, una capacità di risonanza che fa della nostra una specie naturalmente relazionale, alla base di ogni estetica della fruizione letteraria e artistica in generale.

La capacità di Del Giudice di stare all'essere che siamo, di abitare il linguaggio in modo da condurre il lettore ad una più agevole possibilità di abitarlo a sua volta, fa della sua un'arte che esalta la letteratura. Così come quando la fotografia riesce ad assurgere ad arte non vi è bisogno di didascalie, allo stesso modo leggendo Del Giudice il linguaggio basta a se stesso per l'essenzialità poetica a cui l'autore l'ha portato.


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