News/Approfondimenti > 30 novembre 2011

Mostra di Tullio Pericoli alla Civica

Paesaggi della vita
di Ugo Morelli

Chiunque intrattenga un dialogo silenzioso con l’opera di Tullio Pericoli può riconoscere che uno dei suoi temi costanti è il rapporto fra paesaggi interiori e paesaggi esteriori. Non è poi difficile accorgersi come questa sia più una metafora che altro, perché guardando l’intero lavoro di Pericoli sui paesaggi e sui personaggi si scopre che quelli geografici sono anche paesaggi interiori.

Gli stessi che verranno esposti da venerdì alla galleria civica di Trento per Paesaggi una mostra selezione di 14 opere dell’artista marchigiano organizzata dalla Civica con la step Scuola per il governo del territorio e del paesaggio.

Che cosa significa cogliere un mondo interiore che potremmo definire l’anima di un personaggio attraverso un tratto così essenziale ed esteticamente così efficace, come appare nella sua opera?

In primo luogo, la considerazione che io riesca a cogliere l’anima interiore di alcuni personaggi come lei ha detto mi fa molto piacere. Me ne sono accorto senza quasi saperlo. È avvenuto quasi istintivamente andare a cercare nei volti qualcosa, quel certo non so che, che rappresentasse interamente il personaggio e quindi naturalmente anche la sua interiorità. Cosi mi capita di usare il volto di Beckett come il paesaggio delle Marche. Entrambi sono per me come una lingua che ho imparato sin da bambino. Noi ci nutriamo appena nati del paesaggio che abbiamo intorno e quindi il mio paesaggio è come una lingua madre che mi ha comunicato mia madre stessa, attraverso quelle colline.

Una peculiarità affascinante del suo lavoro di disegnatore e pittore è il continuo processo di ricerca con cui lei si pone sistematicamente sull’orlo del riuscire e del non riuscire. La valorizzazione dell’incertezza è fonte della poetica espressiva che nei suoi paesaggi viene fuori. Una descrizione che si propone più che imporsi definendo un suo modo di cogliere gli elementi della realtà e cercare di trasformarli con le immagini.

Lei fa delle considerazioni molto belle alle quali io forse non ero arrivato lavorando. Il mio procedere nel corso degli anni in questo lavoro è stato caratterizzato da una continua ricerca, anche cambiando profondamente generi e tipo di lavoro, guidato sempre da insoddisfazione, da incapacità di trovare quel piccolissimo filamento d’oro che si cerca quando si va in un torrente e si setaccia l’acqua, in attesa di pepita d’oro. Quella pepita è difficilmente riconoscibile, quasi non arriva mai. Così arriva da un lato un po’ di noia, dall’altro un’insoddisfazione di non essere riuscito a beccare quella cosa lì che non si sa cosa sia. La mia vita si è sviluppata e svolta sempre in questo modo.  Tutto ciò lo immagino anche sotto il manto del paesaggio e quindi la mia pittura cerca di graffare, di scalfire la superficie per mostrare quello che c’è sotto e allo stesso tempo mostrare come la superficie è condizionata dall’interiorità che nasconde.

Le persone danno spesso i luoghi per  scontati, li considerano banali perché li vivono tutti i giorni. È solo con il distanziamento che può derivare da una mancanza, che si accorgono del senso e del significato dei luoghi e magari a volte troppo tardi, cioè quando sono già distrutti. C’è un terzo passaggio che nasce dall’incontro tra paesaggi interiori ed esteriori e che produce i paesaggi della nostra vita. L’arte e il disegno possono avere una funzione educativa, aiutandoci a tirare fuori questi paesaggi?

Nei miei paesaggi non voglio denunciare nulla. Come si può vedere non ci sono persone, non ci sono edifici, quindi non c’è un atteggiamento critico nei confronti del paesaggio, di com’è usato e a volte appunto deturpato. Ci sono però come degli allarmi, allarmi che io cerco di nascondere in un segno, in un colpo di spatola in un modo di tracciare il colore. Quello che io penso è, comunque, che rappresentare un luogo, un territorio, un pezzo di collina serva ad indicare, come con un dito, una certa cosa, che la fa vedere, la mostra. E mostrare già invita alla conoscenza e al possesso di quella cosa e quindi all’amore e al desiderio di conservarla.

Quando faccio un paesaggio, un dipinto di un paesaggio, o dipingo una collina ma anche un volto, a volte ho l’impressione non di deporre dei colori sulla tela e basta ma quasi di deporli proprio materialmente su quella collina o su quel volto come se io deformassi e cambiassi la forma di quell’oggetto, perché qualunque mio gesto, per piccolissimo che sia, inciderà nella forma visiva, nella conoscenza di quella cosa rappresentata, di quella forma, di quell’oggetto e, quindi, è comunque un intervento che il pittore fa sempre sulle cose: le trasforma, le cambia perché ci sarà forse finalmente uno che le guarderà attraverso un filtro nuovo, diverso.

È un sogno, un segreto nascosto in questo mestiere. Mi hanno raccontato, non so se è del tutto vero, che ad un certo punto c’è stato un incendio sulla montagna più volte dipinta da Cézanne, la Sainte –Victoire, un incendio che ha deturpato una parte di quella montagna. Ebbene quella zona è stata poi ricostruita guardando il quadro di Cézanne. Questo mi ha veramente commosso.

La comunità dei personaggi o qualcuno di coloro che lei ha così ben catturato donandoceli attraverso i suoi disegni, la vengono mai a trovare? Esiste un posto in cui vi incontrate, onirico o reale?

Non so se sarebbe un bell’incontro. Non tutti accettano volentieri il proprio ritratto. Il ritratto riuscito in fondo dovrebbe contenere la frase che dice: “ecco chi veramente sei tu non credevi di essere questo, di essere così però sei così”. A volte capita che qualcuno ci si riconosca ed è contento, ma abbastanza spesso succede il contrario e quindi se dovessi convocarli tutti ho paura che mi salterebbero addosso.

Mi è capitato, non lo nascondo, di aver fatto dei ritratti su richiesta di alcuni personaggi anche noti i quali, dopo avuto il ritratto, che io ritenevo come gli altri più o meno riuscito, mi hanno detto : “no, no; gli altri suoi ritratti vanno tutti bene meno il mio, nel mio proprio non mi ci ritrovo. Mi ricordo una battuta di Umberto Eco. Ho fatto parecchi suoi ritratti e lui ci si ritrova, ci scherziamo, ma in uno non ci si ritrovava, e mi ha detto: “In  questo qui non sono io, non c’è quella certa cosa, io non ci sono, non mi ci ritrovo.. però ci ritrovo mio nonno, la mia bisnonna”.



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