News/Approfondimenti > 24 ottobre 2023

La gamification per migliorare la formazione e trasformare l’apprendimento

di  Matteo Uggeri

A seconda dei contesti, il termine "gamification" può richiamare grande interesse, suscitare diffidenza oppure risultare molto oscuro. La definizione che vi si dà è spesso quella mutuata dal game designer americano Jesse Schell, ossia “l'uso di elementi presi in prestito dai giochi e dalle tecniche di game design in contesti non ludici” (2010). In questa sede, il contesto che ci interessa è quello della formazione e dell'apprendimento, e quindi l'idea è quella di rivolgerci soprattutto a instructional designer (chi progetta la formazione, a vario livello) e docenti, ma anche HR e chiunque abbia a che fare con le risorse umane. Queste figure oggi si trovano ad affrontare cambiamenti rapidissimi e talvolta radicali che impattano sul proprio lavoro, soprattutto da quando il digitale è entrato a pieno titolo nel processo di apprendimento, con tutto quello che ruota attorno al termine - per alcuni ormai obsoleto ma pur sempre calzante - di eLearning.

Chiaramente, dal 2020 in avanti si è assistito ad un ulteriore consolidamento di questa tendenza, nonché a una progressiva accelerazione dei mezzi e, soprattutto, delle metodologie didattiche. Tra queste, il ruolo che ricopre la gamification è sempre più centrale e determinante. Laddove le reti (che in teoria uniscono e connettono) e gli schermi (che mostrano e separano) diventano le infrastrutture portanti della conoscenza e dell'apprendimento, nonché di molte delle interazioni umane, il ricorso a pratiche non necessariamente nuove (il gioco è tutt'altro che una novità!) ma coinvolgenti, efficaci, dirompenti e - osiamo - umanizzanti, è sostanzialmente necessario. Tuttavia, come questo si possa declinare in pratica, migliorando il processo di apprendimento, resta a volte difficile da spiegare e sperimentare. In questa sede lascio volentieri da parte le teorie per invece suggerire un approccio pratico, proprio per cercare di guidare i lettori verso quelle che possono essere delle esperienze guida, da assaggiare per capire di cosa si parla quando affrontiamo i confini tra gioco e apprendimento.  

In primis, consiglio di mettere da parte l'approccio forse più spontaneo, ossia quello che si ferma a classifiche, punti, premi e talvolta perfino punizioni. Apprendere col gioco deve quanto più possibile far leva sulle motivazioni intrinseche del discente/utente/gamer. Di conseguenza, la mera assegnazione di punti per le attività svolte su una piattaforma (leggere un documento, vedere un video, rispondere a dei quiz), non può essere connessa a un premio: ho visto classifiche stile “impiegato del mese” in corsi di formazione aziendale interna costruiti con tale logica. Per capire quanto non sia adatta a un contesto lavorativo (ma anche scolastico) basta riflettere su come si sentono i 97 sui cento che non sono saliti sul podio dei vincitori.

Coinvolgere col gioco per supportare l'apprendimento è un artificio sottile che prevede innanzitutto la conoscenza profonda delle leve motivazionali dei giocatori/discenti, nell'ottica di individuare cosa più li motiva a restare agganciati all'attività ludico/didattica che stanno vivendo. 

Il ricercatore inglese Richard Bartle individua nel ‘96 quattro sfumate ma interessanti categorie, che vanno dai killer (quelli che sostanzialmente amano vincere sugli altri) agli explorer passando per i socializer e infine agli achievers, ossia chi per esempio gode nel superare livelli ed accumulare attrezzature. E' una classificazione superata e grossolana, ma che torna utile a qualsiasi instructional designer che voglia iniziare, nel proprio singolare contesto formativo, con le proprie persone target, a sperimentare meccanismi “presi in prestito dai giochi e dalle tecniche di game design”. Che, come potete immaginare anche se non conoscete la genesi di videogame come Fortnite (originariamente progettato da una psicologa) o Monkey Island (sovversivo capolavoro riconosciuto del genere adventure) sono tantissime.

Come promesso, chiudo quindi con un consiglio pratico a chi volesse assaggiare un vero prodotto destinato all'engagement formativo di un gruppo di utenti, un pratico e gratuito esempio digitale il cui obiettivo è esattamente quello di trasformare (in meglio) i comportamenti di un gruppo di persone facendo leva su una pratica giocosa ma del tutto seria e calata in un contesto reale.

Chiunque di voi può iscriversi e sperimentarlo: se vivete con qualcuno o condividete uno spazio (ad esempio un ufficio) è ideale, perché potete perfino metterlo in pratica nel mondo reale. Si chiama Chore Wars, ed ha l'obiettivo di stimolare chi lo usa a dei comportamenti virtuosi in attività molto semplici, ossia quelle della manutenzione quotidiana di uno spazio. Avete capito bene: fare le pulizie, le “faccende di casa”. La piattaforma di gioco è assai ben fatta e, sebbene non recente (è del 2007, inventata da Kevan Davis, autore anche del bislacco “Wikipedia: The Text Adventure”), è performante, facile da usare (multipiattaforma poiché si usa dal vostro browser) e - questo lo rende particolarmente interessante - molto simile alle numerose piattaforme in commercio per la gamification o ai componenti/plug-in di gioco per le piattaforme di apprendimento, come Moodle o Docebo.

Calati dentro una metafora-guida (in stile fantasy in questo caso), si sceglie un proprio avatar, gli ambienti (stanze), le attività base da svolgere, ognuna delle quali richiede delle abilità/skill, e infine si attribuiscono dei punteggi agli achievement raggiunti dai partecipanti. In sostanza, un gioco di ruolo in cui possiamo definire noi anche alcuni dei contorni. Sulla base di tali meccaniche si sviluppano poi le dinamiche, ossia le interazioni tra gli utenti che, a tendere, ne possono cambiare i comportamenti.

Nessuno si era mai accorto che ero sempre io a portare fuori la spazzatura il lunedì sera? Ora questo set di attività è tracciato, riconosciuto e condiviso con gli altri utenti.

Se la cosa vi fa sorridere: bene, siamo sulla strada giusta, perché il gioco deve essere anche divertimento. Ma se vi fa riflettere e immaginare come, nel vostro specifico contesto, un meccanismo del genere può funzionare per potenziare le interazioni tra i vostri studenti o colleghi, magari favorendo proattive dinamiche di gruppo, be', allora siamo sulla strada giusta per iniziare a progettare un percorso di gamification.

Che può, peraltro, prevedere anche attività del tutto diverse, come focalizzarsi sulla creatività e generare idee, sviluppare il pensiero laterale, la riflessione maieutica o lo scardinamento delle competenze interpersonali. In questa sede però ci fermiamo qui, sperando di avere contribuito a dare un piccolo stimolo e a fare un po' di chiarezza sulle tante potenzialità della gamification per l'apprendimento. 

 

Riferimenti

Bio

Matteo Uggeri si occupa di e-Learning e innovazione dell'apprendimento da oltre vent'anni, prima per METID  poi per la Fondazione Politecnico di Milano.
I suoi ambiti di azione includono l'open education, la gamification, gli intrecci tra creatività e apprendimento nonché le transizioni tra scuola, università e lavoro. Fa parte del comitato scientifico dell'evento eXploring eLearning ed è membro della rete Educazione Aperta Italia. Insegna presso il DOL, Master Online in tecnologie per la didattica.  È autore de “Il manuale dell'e-Learning. Guida strategica per la scuola e la formazione aziendale” (Apogeo, 2020), tiene corsi per Instructional Designer per la stessa Apogeo ed è Senior Consultant per Grifo Multimedia.

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